La nuova via della seta, il progetto lanciato dal presidente cinese Xi Jinping, sta ormai dettando i «tempi internazionali» di Pechino, permettendo di espandere e non di poco la propria sfera di influenza, tanto commerciale, quanto geopolitica. Se al suo lancio la nuova via della seta era contraddistinta da due rotte ben precise, una marittima e una terrestre, capaci di collegare l’Asia all’Europa, ormai il progetto è diventato globale, senza alcun confine di natura geografico. La Cina, infatti, sta mettendo sotto l’ombrello della nuova via della seta qualsiasi forma di partnership commerciale, tanto in Asia centrale ed Europa, quanto in Africa e America latina.
L’ampliamento del piano, naturalmente, porta con sé alcune criticità. Una è sicuramente la «tenuta» di quei governi più disponibili ad affidarsi al progetto cinese; un’altra è legata a come garantire la sicurezza degli «snodi». Per questi motivi in Cina, da tempo, si discute delle società di sicurezza private, predisposte a garantire e proteggere investimenti e persone cinesi nei tanti punti salienti, ormai, della nuova via della seta. Su questo tema il libro China’s private army. Protecting the New Silk Road (Londra: Palgrave, 2018) di Alessandro Arduino, co – director del Security & Crisis Management International Centre – della Shanghai Academy of Social Sciences, descrive in maniera chiara e ricca di spunti lo status quo e le potenziali novità di un settore che diventerà sempre più centrale nell’afflato globale della potenza cinese. Sul tema abbiamo intervistato l’autore.
Nel suo libro scrive che il ruolo attuale delle società di sicurezza private con «caratteristiche cinesi» è completamente differente da quello giocato da società analoghe, ad esempio in contesti di guerra come in Iraq. Può spiegarci in che modo avviene questo scarto?
Anzitutto va specificato che per quanto riguarda le società di sicurezza privata ci sono due direttive: necessità e capacità. La necessità è sorta fin dal 2013 dal lancio della nuova via della seta, con il conseguente bisogno di proteggere infrastrutture e personale cinese all’estero. La differenziazione del modello cinese rispetto a quelli utilizzati nei casi di conflitto come quello in Iraq o Afghanistan, è evidente, poiché non c’è necessità di supportare una guerra. Il secondo punto è fondamentale, ovvero la capacità: nonostante vi siano più di 5mila società di sicurezza privata in Cina, esse offrono servizi di guardia non granché evoluti. In termini di costi questo è efficiente, in termini di pratica no. Poche decine di queste aziende hanno capacità equivalenti a quelle straniere. Per quanto riguarda il modello negativo di alcune di queste aziende straniere, va specificato che in Cina c’è un approccio più pragmatico sull’efficienza; ciò non toglie che il «modello Blackwater» è stato molto dibattuto ed è comunque presente tramite la Frontier SG di Hong Kong. La necessità è quella di fare alcune distinzioni: mercenario è chi offre servizi cinetici anche preventivi, anche all’interno di un conflitto. Le aziende di private security hanno più a che fare con la sicurezza.
In che modo il progetto della nuova via della seta ha accelerato l’espansione delle società di sicurezza cinese? Quali sono i bisogni – in termine di sicurezza – riscontrati? Mi pare di intuire – inoltre – che ci sia stata una sottovalutazione da parte della dirigenza cinese riguardo questi aspetti.
L’accelerazione che ha dato la Nuova via della Seta ai nuovi bisogni della Cina è esponenziale. Per questo molte di queste società avendo un mercato saturo in Cina – perché ogni azienda ha le sue guardie – si sono rivolti al progetto di Xi che richiede sicurezza e protezione di persone e infrastrutture molto specifici per ogni realtà locale. Pensiamo solo al corridoio in Pakistan, 63 miliardi di dollari di investimenti. Lì troviamo Isis, violenza criminale o anche problemi banali quando gli investimenti cinesi creano scontenti a livello locale. Ciò non toglie che questi servizi vadano declinati in ogni ambito; ad esempio in Africa c’è ampio uso di bodyguard anti-rapimenti. Ora che la nuova via della seta si sviluppa anche in aree come l’America latina, ci sono nuove richieste di sicurezza. Non solo per aziende ma anche per il personale. Si tratta di necessità impellenti che richiedono un adattamento molto rapido. Il problema è riuscire ad arrivare a standard pari a quelle straniere a cui in questo momento manca alcune caratteristiche: personale specializzato capace di parlare mandarino e dal punto di vista di Pechino una cultura aziendale «cinese».
Come il Pcc o il legislatore cinese affronta il tema: come si sta ragionando per regolare in futuro le società di sicurezza cinese? Dato che al momento, come lei scrive, a parte alcune eccezioni è vietato l’uso di armi al di fuori dei confini nazionali, è possibile un cambiamento in questo senso? E se sì, è possibile che sia messo in dubbio il principio di non ingerenza?
Per le società private di sicurezza ci sono leggi che risalgono al 1993 e al 2010 ma sono legate a come si devono comportare all’interno del paese. Non c’è nulla che preveda norme e codici al di fuori del proprio paese perché è una problematica di carattere geopolitico non da poco. Pechino sta già valutando molte opzioni e nell’arco di qualche anno ci saranno leggi e linee guida molto più specifiche. Al momento c’è la ricerca di best practice di aziende straniere e utilizzo di personale di sicurezza locale (ad esempio in Etiopia è obbligatorio utilizzare contractors locali). C’è poi l’aspetto legato alle conoscenze locali e alla segretezza di certe informazioni, che per Pechino hanno la necessità di rimanere all’interno di un network nazionale e non straniero. Essendo solo poche decine le società cinesi che possono operare all’estero, ecco che le aziende straniere diventano importanti (come accadeva già nelle zone economiche speciali negli anni ’80).
Nel suo libro e in recenti articoli, lei affronta il tema della cooperazione anche con l’Europa. La Cina potrebbe rivolgersi a paesi europei per richiedere servizi di protezione di progetti internazionali sotto il cappello della via della seta? A quel punto i paesi che hanno sottoscritto il Mou – Grecia, Ungheria e Portogallo e forse a breve anche l’Italia – avranno dei vantaggi competitivi rispetto ad altri paesi?
È il momento opportuno per l’Europa per quanto riguarda la cooperazione. Dal punto di vista normativo l’Ue ha tantissimo da offrire perché la legge cinese, se vogliamo, è più simile a quella italiana anziché a quella americana, che è molto più disponibile nei confronti dell’utilizzo di mercenari. La loro struttura legale favorisce questa tipologia, mentre Italia Europa e Russia hanno leggi molto simili capaci di bloccare qualsiasi intervento armato fuori dai confini se non per difesa passiva o per la guerra. Esiste un documento di Montreaux supportato dal governo svizzero che ha sviluppato un codice di condotta per la società di sicurezza in modo che non creino dei danni. In questo senso l’Ue ha tantissimo da offrire per un’interazione con la Cina dal punto di vista normativo. Anche la Nazioni unite hanno leggi di questo tipo.
Le recenti riforme dell’esercito e della polizia del popolo che correlazione hanno con la necessità di proteggere progetti internazionali? O sono più legate alle contingenze militari relative al Pacifico?
La riforma è in direzione di un esercito più snello, più capace. Non ci sono ancora linee guida su come esercito e polizia possano interagire con le società di sicurezza private. La marina cinese ha già mostrato ottime capacità di evacuazione in Libia e più di recente in Yemen. La domanda da fare a Pechino è questa: quanti cinesi necessitano in termini di numero, per avere un’evacuazione e in questo caso se una società di sicurezza privata possa operare e come, con che legislazione. Nel White Paper del 2015 sulla Cina nel Medio Oriente, si diceva che in caso di attacchi terroristici – se il paese ospitante lo chiede – la Cina potrebbe decidere di mandare le proprie truppe. Cosa che è ancora in essere ma che potrebbe incontrare dei cambiamenti, portando alla modifica del principio di interferenza, che forse potrebbe trovare una nuova formulazione.
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.