Si è chiuso con una condanna record a 15 anni di carcere il caso di Stephen Lau Hei-wing, imprenditore di Hong Kongmorto dopo essere stato torturato dai pm cinesi che lo avevano preso in custodia per una sospetta frode. La sentenza, rilasciata martedì dal tribunale intermedio N°1 di Tianjin supera le aspettative delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. I nove responsabili, quasi tutti della prefettura di Yanbian, provincia nord-orientale del Jilin, hanno solo dieci giorni per fare ricorso in appello. Le pene detentive spaziano dai 15 anni di Xu Xuezhe, che ha diretto l’interrogatorio, a un minimo di 15 mesi. Quattro sono gli anni che dovrà scontare dietro le sbarre Zhao Bozhong, responsabile della squadra investigativa.
Indiscrezioni sul misterioso decesso di Lau, proprietario del Kimberley Hotel di Hong Kong, erano cominciate a circolare nell’aprile 2017, quando l’uomo d’affari non si era presentato in tribunale nell’ambito del processo che lo vedeva accusato di frode ai danni della Industrial and Commercial Bank of China per un importo pari a 200 milioni di dollari di Hong Kong. Un caso che nell’ex colonia britannica aveva catturato l’attenzione mediatica per via della stretta amicizia tra Lau e Nina Wang Kung Yu-sum, un tempo tra le imprenditrici più ricche d’Asia. Secondo una copia dei documenti processuali circolata online all’inizio di settembre, l’uomo sarebbe stato bendato e legato a una sedia per più di quattro giorni, con la bocca chiusa con il nastro adesivo.Verso la mezzanotte del 19 marzo 2017, il quinto giorno dell’interrogatorio, gli accusati avrebbero “piegato la parte superiore del corpo verso le gambe più volte” fino a fargli perdere conoscenza. Stando al Sing Tao Daily, l’autopsia – che attesta la presenza di plurime fratture ossee – certifica la morte per soffocamento.
Le ragioni dell’arresto sono tutt’ora poco chiare, anche se il Financial Times ipotizza vada letto alla luce del coinvolgimento di Lau nella disputa sull’eredità di miss Wang. Per le organizzazione dei diritti umani, il caso costituisce un precedente incoraggiante per lo stato di diritto in Cina. “E’ insolito che chi ricorre alla tortura venga condannato e mandato in prigione”, spiega al South China Morning Post Maya Wang di Human Rights Watch, “e questo contribuisce alla persistenza del problema.” La pena massima sarebbe inoltre superiore alle aspettative giacché in genere, per reati analoghi, “la condanna non supera i sette anni”, spiega una fonte legale del quotidiano, individuando nella residenza hongkonghese della vittima un possibile aggravante.
Tra i paesi ad aver siglato e ratificato la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, nel 2013 la Cina ha duramente condannato l’utilizzo delle confessioni forzate nell’ambito di una ambiziosa ma poco convincente riforma giudiziaria. Recenti testimonianze rilasciate da alcune delle vittime del giro di vite lanciato nel luglio 2015 contro gli avvocati per la difesa dei diritti umani attestano tutt’oggi l’utilizzo di metodi coercitivi durante le detenzioni extragiudiziarie, dalla privazione del sonno alle tradizionali percosse. Ridimensionando la portata della conversione cinese al rule of law, nel gennaio 2017, il capo della Corte Suprema del popolo, Zhou Qiang, ha intimato alla magistratura locale di combattere gli “errati ideali occidentali dell’indipendenza giudiziaria, della democrazia costituzionale e della separazione dei poteri”.
A dimostrazione della sensibilità della materia, secondo China Digital Times, l’inizio del processo contro i carnefici di Stephen Lau è stato sottoposto a censura nel mese di settembre con la pubblicazione di una circolare in cui veniva richiesto ai media di “non raccogliere, segnalare, commentare o ripubblicare” la notizia. Una misura controversa che non sembra ugualmente aver azzittito il dibattito in corso ai vertici della gerarchia comunista. La superpotenza continua la sua strada verso lo stato di diritto con un passo in avanti e uno indietro.
La sentenza del tribunale di Tianjin arriva infatti mentre il comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo (il parlamento cinese) valuta per la prima volta la possibilità di estendere il controllo degli organi giudiziari sull’operato della National Supervisory Commission, la potentissima agenzia anticorruzione preposta al controllo del personale statale, non solo dei membri del Partito. Istituita a marzo, dopo due mesi la commissione è finita al centro delle polemiche per la morte di un ex impiegato statale mentre era sotto indagine.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.