“I membri del partito che hanno credenze religiose” dovranno essere sottoposti a una sorta di rieducazione politica. “Se non cambiano le proprie idee dopo l’aiuto e l’educazione dell’organizzazione del partito, dovrebbero essere incoraggiati a lasciare il partito”. Per chi invece la religione è una vera e propria forma di “attivismo” – condita dal proselitismo – non c’è altro destino se non “l’espulsione”.
Si tratta di una serie di norme all’interno di un regolamento rilasciato a fine agosto dal partito comunista. Le indicazioni in fatto di religione ne seguono altre di natura più politica: non solo rischia di essere espulso chi non è ateo, come ribadito dallo stesso Xi Jinping durante un discorso del 2016 proprio sulle questioni religiose, ma anche chi diffonde rumors e notizie che possono danneggiare il partito.
Le norme sulla religione – sebbene la Costituzione cinese garantisca formalmente la libertà religiosa – acquistano una loro rilevanza all’interno di una situazione sociale che il partito comunista tenta da sempre di tenere sotto controllo. Il Pcc è ateo, riconosce un certo margine di manovra alle religioni, purché accettino di essere “sinizzate”, o meglio “comunistizzate”: devono remare nella stessa direzione della leadership cinese.
Le religioni in Cina, negli ultimi decenni, hanno avuto momenti di libertà contrapposti a momenti di dura repressione ma non è mai cambiato l’indirizzo del Pcc, volto a rivolgere anche l’impegno religioso “alla costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi”.
Ci sono due ordini di ragionamento in merito all’ultimo regolamento del Partito comunista cinese.
Queste norme, in primo luogo, seguono un periodo di forte controllo delle attività religiose. I due target che la leadership cinese ha messo nel proprio mirino di recente – considerando le questioni Tibet e Xinjiang a parte, connotate religiosamente, ma prese in considerazione dal Pcc come un problema interno di natura politica e securitaria – sono stati per lo più i protestanti e la minoranza musulmana hui.
Per quanto riguarda i primi, di recente hanno subito la distruzione di alcune chiese oppure la cosiddetta messa in sicurezza dei propri luoghi di culto. È il caso, ad esempio, della Chiesa di Sion a Pechino, molto nota e considerata la più grande chiesa non ufficiale per i protestanti, posta al terzo piano di un edificio, il Longbaochen Commercial Mansion, nel quartiere Chaoyang della capitale. Prima che arrivassero i fedeli quel posto era un nightclub.
Dapprima le autorità hanno provato a imporre il posizionamento di telecamere all’interno del luogo di ritrovo dei fedeli adducendo questioni di sicurezza. Di fronte al rifiuto, improvvisamente il contratto di affitto per la chiesa si è estinto e a fine agosto i fedeli hanno scoperto che probabilmente dovranno trovare un altro posto dove incontrarsi, pregare e ascoltare la messa.
Come riportato dal New York Times, “I luoghi non ufficiali, che vanno dalle piccole riunioni in salotti di case, alle grandi organizzazioni come quella di Sion», in realtà negli ultimi decenni sono stati tollerati dalle autorità.
“Spesso erano in grado di affittare spazi di grandi dimensioni, sebbene questi siano raramente identificabili dall’esterno. Gli unici esterni della chiesa in Cina adornati con campanili o croci sono ufficialmente sanciti”. Ma a partire dal febbraio scorso la nuova legislazione in fatto di religione ha finito per aumentare la supervisione da parte delle autorità sulle pratiche e sugli adepti “con pene più severe”.
Oltre alla richiesta di installare telecamere di sicurezza, “alcune chiese non ufficiali sono state incaricate dalla polizia di prendere liste dettagliate dei documenti di identità dei partecipanti e dei numeri di telefono, secondo quanto affermato dagli attivisti”. Chi non ha accettato le nuove regole, sempre secondo i fedeli delle varie chiese, ha ricevuto a casa la visita della polizia.
La seconda considerazione da fare sull’ennesima stretta sulle religioni porta a una più generale riflessione sul dilagare di sette e credenze in una società come quella cinese sballottata da immani cambiamenti economici e sociali che hanno portato alla ricerca di una ragione di vita in mille rivoli spirituali. Come dimostrano i tanti membri della Chiesa di Dio Onnipotente, una delle tante sette cristiane che chiedono asilo politico nei Paesi europei o negli Stati Uniti).
La campagna anti corruzione di Xi Jinping ha riportato il partito comunista in una posizione centrale nella vita politica, rivalutandolo agli occhi di molti; ma il tempo perso a causa di scandali di corruzione e abusi di potere, ha portato molti cinesi a cercare altrove radici e ideali in cui identificarsi. Se per quanto riguarda la Chiesa cattolica Pechino da tempo – insieme al Vaticano – sta cercando una forma di normalizzazione dei propri rapporti, con le tante chiese, sette, e tendenze la dirigenza del partito agisce come meglio gli riesce: attraverso il controllo e se non basta la repressione.
Questi atteggiamenti ci mostrano una Cina complessa, anche da punto di vista della ricerca da parte della popolazione di una più precisa possibile identità e le recenti misure del Pcc sembrano colmare gli spazi che il “sogno cinese” e la Nuova via della seta lasciano indietro. Un’opera di convincimento coatta che bolla le religioni come potenziali e pericolose influenze occidentali, per riportare tutti i cinesi sotto l’unica grande chiesa concepita dalla dirigenza: il partito comunista.
[Pubblicato su Eastwest]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.