Nel 2002 la sinologa Renata Pisu consegnava un volume, «Oriente Express» (Sperling&Kupfer, pp. 244, 15 euro) nel quale — tra i tanti posti osservati sul campo — raccontava anche la sua visita a Singapore. La città-stato, nata dalla diaspora dei cinesi, notava Pisu, balzava agli occhi a chi arrivava dopo un soggiorno in Cina, per un motivo molto semplice: pur formata per lo più da cinesi, ospita una «Chinatown».
Nell’osservare questa parte di Oriente — sottolineando come la dicitura «misterioso Oriente» indichi in realtà una costruzione tutta occidentale a segnare dunque un posto che molto semplicemente «non esiste», argomentazione che, purtroppo, rimane valida ancora oggi per molta stampa mainstream — Pisu si domanda che importanza può avere un posto come Singapore. La risposta è la seguente: «Qui, questi cinesi figli della diaspora che è cominciata 500 anni fa, hanno fatto un’altra Cina, la Cina dell’utopia. Bella? Felice? Chi può dirlo? A nessuno è mai capitato di vivere nel paese dell’utopia, ai singaporeani sì». Il merito di questa «utopia» nascosta nel clima tropicale di questa parte dell’Asia, non senza punti oscuri, legati al ferreo controllo sociale, sulla stampa, su ogni potenziale conflitto, va sicuramente «al più confuciano e più paternalista e più autocratico governante che la Cina abbia mai partorito: si tratta di Lee Kuan Yew, un uomo al cui confronto impallidiscono Mao Zedong, Deng Xiaoping, Chang Kai-Shek, tutti quanti insomma».
Lee è presente ancora oggi, nonostante sia morto nel 2015 (gli è succeduto il figlio che viene considerato, almeno stando alla vox populi, molto meno «geniale» del padre). Lee è presente ovunque: nelle librerie, perfino in quelle dell’aeroporto, con i tomi che raccolgono le sue memorie. Ma è altresì presente nelle strade, nei grattacieli, nella skyline, nella pulizia della città, nella convivenza tra una giungla antica e preservata e i giardini verticali dei più lussuosi alberghi della città, nello sviluppo verticale delle sedi di co-working internazionali, negli «hawker center» sintomo di multietnicismo presentato attraverso la varietà gastronomica, nei giardini botanici, nei «Garden by the bay», nel dinoccolato passeggio dei tanti expat che pensano di essere in Asia, ma danno l’idea di non sapere davvero cosa sia l’Asia, affogati, forse, nella comodità di una metropoli che pare trovarsi da quelle parti per puro caso.
Singapore, infatti, è uno squarcio storico e architettonico nel continente asiatico: rappresenta un elemento di discontinuità, un luogo capace di immunizzarsi da conflitti, attraverso una sicurezza silenziosa e onnipresente. La polizia si vede e non si vede, il controllo è ancora peggio di quello imposto di autorità, come deve essere stato agli albori del concetto di Singapore «Svizzera d’Asia»; siamo di fronte a una sorta di autocontrollo, un’autocensura di comportamenti che semplicemente vengono ritenuti sbagliati, a seguito di campagne decise e determinate a fare passare il messaggio.
Non poteva dunque che essere Singapore il luogo perfetto per ricevere due personaggi che — in altri posti — avrebbero rischiato di creare disagi veri, attirando contestatori, manifestazioni e proteste di ogni tipo.
Invece, Trump e Kim Jong-un, a parte alcune strade chiuse, hanno inciso ben poco sulla quotidianità della città stato, luogo di passaggi interni, di aria condizionata contro l’umidità, di centri commerciali che ricordano i bassifondi delle città canadesi: per il caldo o per il freddo la vità è «dentro». Anzi, l’idea stessa di città, di Singapore, è incanalata proprio all’interno: per contrastare il clima la struttura è concepita in modo «totale».
E tutto pare compresso, annientato: così Kim Jong-un — nella sera che ha preceduto il vertice — ha potuto camminare per le strade e visitare le parti più turistiche accompagnato da qualche ministro di Singapore.
Sconosciuti che grazie a un selfie su Twitter, improvvisamente, hanno assaggiato la Storia attraverso quella caduca sensazione di notorietà. Trump e Kim, poi, hanno alloggiato in alberghi differenti ma a un tiro di schioppo in linea d’aria. Tra di loro — tra le loro sfarzose suite — continuava la vita una delle strade più note di Singapore, Orchard Road, la via dello shopping, dove si addensano però i massaggi cinesi — con il consueto corredo di «loschitudine» e la Orchard Tower, luogo prediletto da chi è in cerca di prostituzione (a Singapore è praticamente legalizzata) ma sconsigliato vivamente dalle guide turistiche, a causa dei rischi di incontri poco raccomandabili. Uno spasmo di violenza potenziale, nel paese in cui la presenza della criminalità è uno dei più bassi al mondo.
A Singapore, per dire, si lascia il casco della moto appoggiato, senza alcun problema. Eppure insieme alle memorie di Lee, nelle librerie si osserva un proliferare di libri gialli, di noir. Qualcuno di questi scrittori l’ha detto: avere il tasso di criminalità tra i più bassi al mondo non significa che non esistano crimini. E poi, in quanto hub finanziario basato sulla totale libertà delle multinazionali — condizione che volle proprio Lee e in questo sta lo scarto rispetto ai suoi vecchi amici socialisti cinesi — il crimine cos’è?
Domande che Kim e Trump non si saranno posti, presi com’erano ad affrontare la storia, contornata da queste vecchie case coloniali, britanniche, rimaste insieme alla guida a destra e a tanti piccoli particolari — come il «Sir», d’obbligo praticamente — come eredità del colonialismo. Oggi queste strutture basse, pulite e rigorosamente attrezzate di emozioni da poco, vecchi arredamenti, clima da film degli anni ’30, sono per lo più ristoranti, o luoghi che ospitano mostre, appuntamenti dei designer che nell’utopia di Singapore hanno trovato la loro. Proprio questo colpisce di Singapore e forse giustifica la scelta di produrre qui la pace mediatica tra Kim e Trump: sembra tutto chiaro e inafferrabile allo stesso tempo. Singapore è la percezione che qualcosa sfugga. Non sorprende dunque se «la pace mediatica» siglata abbagli la vista e nasconda insidie.
Dettagli, certo, ma sarebbe banale. Si tratta di qualcosa di più profondo. I due leader hanno offerto uno show in piena regola, preparato, studiato e offerto come probabilmente era stato immaginato. Come Singapore.
Eppure nei meandri di questa città — un tempo percorsa per lo più da poveracci — si cela perfino il racconto attento di chi ne ha solcato strade e idee.
Il sociologo Giuseppe Bonazzi (in «Lettera da Singapore», 1996, Il Mulino) ha colto molto di questo sentimento «singaporeano», pescando nel passato: «Lee Kuan Yew nel 1967 dichiarava: per realizzare il nostro programma di edilizia popolare non c’è altra via che espropriare i proprietari dei terreni con indennizzi inferiori anche dieci volte il prezzo di mercato. Nella nostra immaginaria delegazione la certezza di trovarsi in un paese socialista si sarebbe accompagnata all’entusiasmo per una misura così drastica contro il mercato. Senonché a complicare gli schemi sta il fatto che in quegli stessi anni Lee e il suo partito, il Pap, erano impegnati in una lotta all’ultimo sangue con il partito comunista locale. (…) E negli stessi anni Singapore apriva le porte al grande capitale straniero: statalizzava il terreno per costruire le case della povera gente, ma anche per attrezzarlo in aree industriali da affittare alle multinazionali».
di Simone Pieranni
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.