Tra meno di due settimane il Pakistan andrà alle urne per una tornata di elezioni nazionali che già si annuncia tesissima, stretta tra la minaccia destabilizzatrice del terrorismo autoctono di matrice islamica, le accuse di manipolazione da parte dei vertici militari e un intervento controverso dell’apparato giudiziario nazionale, abbattutosi nei giorni scorsi sulla famiglia dell’ex premier Nawaz Sharif.
Nella giornata di ieri un attentatore suicida si è fatto esplodere a Peshawar nel bel mezzo di un comizio elettorale tenuto da Haroon Bilour dell’Awami National Party (Anp). Mentre scriviamo il bilancio è fermo a 20 morti, compreso Bilour, e almeno una settantina di feriti. Rivendicato dalla cellula terroristica Tehreek-i-Taliban Pakistan (Ttp, i cosiddetti “talebani pachistani”), l’attentato è arrivato a stretto giro dalla dichiarazione rilasciata dal portavoce dell’esercitoregolare pachistano in cui veniva riaffermato il ruolo di «garante della sicurezza» dell’apparato militare nazionale.
Intorno all’influenza dell’esercito nella gestione della res publica pachistana e nell’intervento — diretto o indiretto — nella vita politica del Paese, negli ultimi mesi si è dipanata l’inquietante vicenda dell’ex premier Nawaz Sharif, passato nel giro di un anno da capo del governo a escluso con ignominia dalle prossime elezioni.
Sharif, già costretto alle dimissioni e condannato all’interdizione dai pubblici uffici per una sentenza relativa allo scandalo dei Panama Papers pronunciata lo scorso anno, all’inizio del mese ha incassato una nuova condanna a 10 anni di reclusione, sempre per lo scandalo Panama Papers. Nella stessa sentenza, sua figlia Maryam è stata condannata a sette anni di prigione, il genero, Safdar Awan, a un solo anno per non aver collaborato con le autorità durante le indagini sviluppate intorno a operazioni commerciali fatte dalla famiglia Sharif sul mercato immobiliare londinese per acquisire appartamenti di lusso non dichiarati alle autorità fiscali pachistane.
Nel mese di aprile, la Corte suprema pachistana aveva già specificato che la sentenza di interdizione ai pubblici uffici per Nawaz Sharif era da intendersi come misura “a vita”, di fatto non solo squalificando l’ex premier dalla corsa alla rielezione tra le file del partito Pakistan Muslim League — Nawaz (Pml-N) ma decretandone la morte politica.
I contorni giuridici della sentenza aiutano a mettere a fuoco il contesto torbido in cui la democrazia pachistana, storicamente piagata da colpi di Stato militari e cabine di regia occultecapaci di manovrare amministrazioni tecnicamente elette dal popolo. L’interdizione di Sharif è stata pronunciata ai sensi dell’articolo 62(1)(f) della Costituzione pachistana, introdotto nel 1985 dal generale dittatore Zia ul Haq. Secondo l’articolo, i membri del parlamento pachistano devono rispondere ai criteri di sadiq e ameen, termini di origine araba che possiamo rendere come “onesti e affidabili”: due termini appositamente vaghi, usati come strumento per colpire legalmente i propri avversari politici in punta di Costituzione.
Husain Haqqani, direttore del South and Central Asia Department presso l’Hudson Institute di Washington D.C. ed ex ambasciatore pachistano in Usa, in un interessante commento ospitato da Indian Express ricorda come lo stesso Sharif, che debuttò in politica sotto l’ala protettrice del generale Zia, per anni si rifiutò di sostenere in parlamento la battaglia per l’abrogazione dell’articolo 62, all’epoca utile per colpire i propri avversari politici (la famiglia Bhutto).
Che ora lo stesso articolo sia stato utilizzato contro la famiglia Sharif, secondo numerosi analisti, indica chiaramente che Nawaz, probabilmente corrotto come gran parte della classe politica nazionale, stia scontando ora la rappresaglia degli apparati militari che un tempo lo appoggiavano.
Ayesha Siddiqa, ricercatrice presso la Soas di Londra e autrice del volume Military Inc., sempre su Indian Express spiega: “La potenza militare sta punendo il suo ex cliente, rimodellando il perimetro del campo politico nazionale. Come Zulfiqar Ali Bhutto, che godeva del sostegno di alcuni settori dell’apparato militare fino al 1971 per poi essere prima abbandonato e poi eliminato fisicamente, Sharif viene rimosso prima che il suo partito diventi troppo potente. Dalla gestione del China-Pakistan Economic Corridor (Cpec) al fronte della guerra in Afghanistan, dalla questione del Kashmir ai rapporti con Donald Trump e Narendra Modi, sono numerose le questioni in cui l’establishment vorrebbe avere più voce in capitolo”.
L’operazione di killeraggio orchestrata dai militari in collaborazione con le autorità giuridiche pachistane ha spianato la strada all’ascesa definitiva di Imran Khan, ex star del cricket e capo del partito Pakistan Thareel e Insaf (Pti), al momento dato come favorito alla premiership in funzione di una maggiore influenza dell’esercito negli affari del Paese.
Khan, strizzando l’occhiolino all’elettorato più religioso, recentemente si è speso in un’accorata difesa della controversa legge sulla blasfemia che, per reati che comprendono “uso di commenti sprezzanti a voce o scritti, diretti o indiretti, che sviliscano il nome di Maometto” prevede la pena di morte. La legge è tradizionalmente utilizzata per colpire le minoranze etniche e religiose nel Paese, oltre che gli elementi più progressisti e laici che si battono per l’abrogazione della norma.
In quello che si annuncia un testa a testa tra il Pti di Imran Khan e il Pml della famiglia Sharif — con Nawaz che, contro il consiglio dei suoi legali, ha deciso di rientrare in Pakistan dal Regno Unito dove sua moglie è stata operata — l’ago della bilancia potrebbe essere nelle mani dei candidati indipendenti (160) cui l’Election Commission of Pakistan ha assegnato il simbolo di una jeep.
Nel clima di complottismo dilagante che permea, non con tutti i torti, questa tornata elettorale, l’ipotesi che dietro le jeep si nasconda la longa manus dell’esercito, pronto a ricattare il primo partito eletto con i seggi necessari per raggiungere la maggioranza, non sembra così assurda.