Un pittore… che dipinge. Alessandro Rolandi è stato alla mostra di Li Songsong, in cui la forma rimane piuttosto classica, ma la scelta così mainstream sembra sincera. Che modo c’è di capirlo? Nessuno, ma forse non ha neppure troppa importanza. Prima delle feste natalizie e il capodanno cinese, che quest’anno si allineano quasi in continuità diretta, una delle ultime mostre pechinesi è stata la personale alla prestigiosa Pace Gallery, filiale pechinese, del pittore Li Songsong, artista di primo piano tra le stelle del contemporaneo cinese.
Songsong è un pittore nel puro senso della parola; si è sempre espresso con questo medium, con cui, in ragione della tecnica che usa, riesce ad espandere il concetto di pittura oltre le due dimensioni in maniera interessante, nella direzione della scultura.
Da anni in vetta sia in termini di reputazione che di vendite, potrebbe essere molto facile relegarlo nella categoria dell’arte commerciale, di alto livello certo, ma commerciale. Pace stessa, pur rimanendo una galleria storica e di notevole rango, che sostiene e collabora da due generazioni con artisti di grande fama, non è però considerata tra le top gallerie «sperimentali». Rappresenta la sicurezza di avercela fatta e di avere un mercato di ottimo livello con opere di qualità ma che rimangono circoscritte ai medium più tradizionali, pittura-scultura-grafica etc.
Se dovessimo attenerci a queste premesse, potremmo facilmente accontentarci di sapere che un pittore molto quotato presenta la sua ultima personale in una galleria blue chip; questo meccanismo, purtroppo, oggigiorno, implica spesso un certo distacco istintivo nei cuori e nelle menti di coloro che cercano nell’arte un qualcosa che rifletta e sfidi la condizione contemporanea e generi dubbi e critiche sul sistema.
Chi invece vuole vedere una mostra in cui tutto è consensuale e conseguente – dal setting, al pubblico e alle opere – di solito si sente benissimo avendo a che fare con questi connubi dove ogni elemento (pubblico, galleria, artista) è validato a priori e tutti assieme tendono a rinforzarsi a vicenda.
Pur se rimane difficile distanziarsi da questa tipologia, voglio affermare che in questo caso, per merito dell’artista, il clichè viene smentito.
Perché? Semplicemente perché Li Songsong, attraverso la passione, l’attenzione, il talento e il coraggio ostinato che dimostra nel cercare ancora di dire qualcosa con la pittura, riesce a toccare e a far vibrare corde interessanti, sia dal punto di vista intellettuale che formale. L’artista è conosciuto per dipinti materici di grandi e medie dimensioni, in cui larghi impasti di colore (di solito tonali con pochi primari e buona sottigliezza) di forma geometrica sono stesi con grandi spatole e leggermente sovrapposti in maniera astratta, per poi essere incisi e lavorati con altri strumenti che registrano precisi elementi figurativi (immagini, situazioni, ritratti), che diventano tracce disegnate nella materia pittorica.
Songsong ha sempre associato questo formalismo tecnico a contenuti vari che spesso hanno però riferimenti politici, storici e sociali della vita cinese.
Questo stile controllato e non particolarmente aggressivo gli consente talvolta di reinterpretare immagini forti provenienti dalla cronaca (news, weibo, etc) in forma di «frames» che sono poi anche criptate dall’effetto di sovrapposizione degli «aplats» di colore e dal fatto di articolarsi tra i vari strati della pittura molto spessa e materica.
In questa sua sospensione tra figurazione e astrattismo e nell’uso della spatola si può forse rintracciare in un passato lontano, l’influenza cosciente o meno, di Nicolas DeStael, poi soppiantata da quella più recente di Richter nella scelta della palette e in quella dell’approccio concettuale e di manipolazione di immagini già esistenti recuperate dalla fotografia e dai media.
Il mix di tradizione e concetto gli è valso una consacrazione locale e internazionale rapida e intelligente e anche la possibilità di aver a disposizione uno stile, una formula che si può ripetere con parecchie variazioni pur restando fedele a se stessa e molto riconoscibile. Ma in questo caso il jackpot della fama e del mercato non sembrano aver raffreddato o omologato questo artista che in questa personale, si potrebbe chiamarla una post-consacrazione, ci dimostra una grande voglia di trovare qualcosa, di spingersi ancora oltre, di rimettere in discussione se stesso e quello che lo ha portato dove si trova.
Quello che rende il suo sforzo a mio avviso ammirevole, è che Li Songsong si impegna in questa battaglia facendoci capire che non ha alcuna intenzione né di lasciare la pittura, né di lasciare la «sua» pittura, la sua tecnica, il suo stile e la sua iconografia.
Ed ecco allora che lo spazio bauhaus di dimensioni museali di Pace Beijing si riempie di dipinti in cui questi elementi fondamentali – spessore, materia, tonalità, figurazione, struttura e composizione – si articolano in tante modalità differenti, cercando di trovare, nei propri limiti fisici e combinatori, un qualcosa appena più in là, oltre.
Li ora flirta con l’astrazione e il modernismo riducendo gli elementi figurativi, accentuando il formalismo dei volumi e delle geometrie e introducendo supporti metallici come lastre di acciaio, quasi a rendere alcuni quadri degli enormi oggetti/sculture; ora, in altri, cerca di stilizzare e sintetizzare la componente figurativa dirigendosi quasi verso l’illustrazione digitale o fumettistica; in altri ancora lascia che il segno si esprima in maniera più lirica e sfumata. In certe opere invece si orienta verso la casualità e l’energia bruta del gestuale, dell’informale e dell’arte processuale.
Tutto questo avviene con una tensione costante, il bisogno di mantenere un rigore qualitativo e di trasmettere la difficoltà della condizione di prigioniero volontario di un medium e di uno stile, senza rinunciare al desiderio, probabilmente impossibile, di spingersi oltre, ma rifiutandosi di lasciar andare o distruggere ciò che esiste.
Ognuno ha il proprio atteggiamento e la propria inclinazione nei confronti di queste scelte artistiche: meglio un John Baldessari che a un certo punto brucia tutti i suoi dipinti e ricomincia da zero per trovare una via completamente diversa o un Morandi che dipinge le stesse bottiglie per 50 anni negli stessi momenti della giornata e con la stessa luce?
Meglio la street art, la pratica sociale e l’arte invisibile o il comfort dell’olio su tela; il piacere e il bello del marmo o del bronzo, o la vibe pop della plastica e l’acciaio colorato del kitsch estremo? Meglio l’arte fatta di spazzatura? L’arte politica?
Mai come ora tutte le direzioni sono presenti e tutte le vie percorse e ripercorse. Di sicuro alcune parlano di più alla nostra epoca e parleranno di più al futuro.
Altre forse spariranno o forse si rinnoveranno, o semplicemente si ripeteranno.
Quello che però mi sembra importante, visto che nel marasma generale è sempre più difficile spiegare ma ancora di più sentire la qualità di un’opera d’arte, è forse riconoscere in alcuni artisti e nel loro lavoro, una certa ossessione, un qualcosa di ostinato e non razionale e calcolatore, che, in alcuni, non si spegne né con la fama né con l’oscurità e che rimane assolutamente necessario, ma anche profondamente inutile.
Sarebbe stato tutto sommato più facile per Songsong, creare derivazioni scultoree o installazioni per cercare di dare alla sua opera una patina più contemporanea, o filmare i suoi dipinti e trarne animazioni e invece ha scelto di non curarsi del fatto che, a detta di molti, la pittura sembra – per l’ennesima volta nella storia dell’arte – aver esaurito il proprio potenziale di rottura (nonostante sul mercato la faccia da padrone, per ovvie logiche di comodità e facilità a essere trattata in termini mercantili). Sarebbe stato per lui più facile cercare non «the next thing in art» ma «the next thing for himself, as an artist and as a painter», lasciando il discorso dell’avanguardia a lato.
Questo atteggiamento, per cercare un parallelo rilevante, potrebbe ricordare l’esperienza di Giacometti che, dopo aver sperimentato e flirtato con il surrealismo, decise di allontanarsi dall’avanguardia e ritornare alla figura e al ritratto, per essere sfidato da Cocteau e Breton sul fatto che di «teste» e di «figure» se ne erano viste ormai troppe (a loro rispose «bè, io non ne ho ancora viste abbastanza»). Ma forse, visto che Songsong non ha mai deviato dalla pittura, si potrebbe citare David Hockney, con la differenza che l’artista cinese è nato nel 1973 e non più di ottanta anni fa.
I maligni diranno – e potrei farlo anch’io – che Li Songsong continua a dipingere perchè i quadri si vendono, ma nonostante ci siano tanti artisti ancora giovani che hanno semplicemente imparato come assecondare questa realtà, nel caso in questione mi sembra evidente che questo artista, almeno per ora, ama la pittura e ne è prigioniero perché è ciò che sa fare e che vuole fare e che non potrebbe fare a meno di fare.
A Pace, Li Songsong non ha esposto nessun capolavoro; i quadri sono probabilmente troppi e alcuni esperimenti sono fini a se stessi e non si sostengono, ma invece di provare a dimostrarci che è un grande pittore famoso, ha cercato di dirci che è ancora vivo.
Se volessimo ribaltare tutto, potremmo sempre pensare che la battaglia di variazioni sul proprio metodo, che ha ingaggiato in questa mostra a Pace, sia invece solo la produzione, a mente fredda, di «echantillons»: di possibilità per gusti e palati leggermente differenti ma che vogliono la sicurezza di acquistare il suo marchio di fabbrica. Che forma di oggettività mi spinge a ritenere onesta e profonda la demarche di Songsong? Si possono produrre prove in merito? Non so, a me sembra che nelle opere questo si legga e si senta. Ma chi può leggerlo e sentirlo? E soprattutto, oggi, è ancora importante?
FreeVantablack è la rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito. «Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.] *Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.