Le decisioni dell’Unione europea sul riconoscimento o meno alla Cina dello status di economia di mercato hanno scontentato chiunque. A Pechino non è stato ufficialmente attribuito tale status. Non è scattato l’automatismo atteso dai cinesi in base alla loro interpretazione letterale del protocollo d’ammissione all’Organizzazione mondiale del commercio. L’industria europea contesta a sua volta il compromesso, giudicato al ribasso, sugli strumenti comunitari di difesa commerciale, che potrebbero portare a riconoscere la Repubblica popolare, sebbene indirettamente, come un’economia di mercato, rendendo quindi più difficile imporre dazi o altre misure antidumping. Lo scorso 11 dicembre cadeva il 15esimo anniversario dell’accesso della Cina al Wto. Un traguardo sostenuto dall’allora presidente statunitense Bill Clinton. La Repubblica popolare era stata accolta come «non-market economy», tenendo in considerazione la pervasività dello Stato nelle vicende economiche e la conseguente distorsione della concorrenza.
Trascorsi tre lustri, si pensava che tale limbo dovesse essere superato. Per i cinesi si tratta di un processo automatico, in base a quanto stabilito dall’articolo 15 del protocollo d’adesione. Il caso è uno di quelli che va trattato in punto di diritto. Stati Uniti, Giappone e anche India si sono opposti a tale interpretazione. Lo stesso sta facendo l’Unione europea sebbene le posizioni siano più sfumate tra i 28 Stati membri. A grandi linee la Germania e il blocco nordico sono favorevoli ad assecondare le richieste cinesi, mentre Italia e Francia sono stati i governi che hanno fatto maggiore resistenza. Ma le divisioni non sono soltanto tra Paesi.
Ci sono anche tra le istituzioni, sebbene sia la Commissione Ue sia l’Eurocamera sia il Consiglio concordino sul fatto che la Cina non possa essere ancora considerata un’economia di mercato. Non risponde infatti a tutti i cinque criteri che la stessa Ue si è data per definirla tale: allocazione delle risorse decisa dal mercato, rimozione delle barriere commerciali, una governance societaria indipendente, l’apertura del settore finanziario e una riforma dei diritti di proprietà. Negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti, ma ancora non basta. Per questo il Parlamento europeo votò lo scorso una risoluzione non vincolate per esortare l’esecutivo comunitario a non procedere con riconoscimenti unilaterali che avrebbero esposto il mercato comune all’arrivo di prodotti made in China a prezzi stracciati. Di contro la Commissione ha temuto per un parere legale favorevole all’automatismo e ha basato il proprio giudizio su una valutazione d’impatto molto più cauta rispetto a quella della Confindustria europea, arrivata a paventare la perdita di 3,5 milioni di posti di lavoro nell’arco di cinque anni, qualora venisse concesso lo status.
La posizione che ha preso piede nell’Ue è quella di non dare il riconoscere alla Repubblica popolare, ma di riformare il sistema in modo da cominciare a considerarla un «paese neutro». Così come formulata la nuova politica di protezione dalle pratiche commerciali scorrette continua, però, a non convincere le imprese. Tanto meno dopo l’accordo al ribasso raggiunto tra i 28. Un compromesso all’ultimo, merito del lavoro della presidenza slovacca della Ue, che prevede dazi più consistenti di quelli attuali e tempi ridotti per le indagini anti-dumping che potranno essere avviate anche senza richiesta ufficiale da parte dell’industria quando esiste una minaccia di rappresaglia da parte di un Paese terzo.
Lo scorso novembre la Commissione europea ha presentato le proprie proposte in tema di misure antisovvenzioni. La riforma prevede la modifica della modalità di calcolo del dumping nelle futue inchieste sulle importazioni da Stati aderenti al Wto che hanno un controllo troppo serrato sulle proprie aziende . Bruxelles ha proposto un calcolo del dumping basato sui prezzi di un Paese con un livello di sviluppo economico paragonabile a quello dell’esportatore e non più su quelli di un Paese a economia di mercato. Spetterà inoltre alla Commissione preparare relazioni sui diversi Paesi per decidere se la loro economia sia o meno distorta. Un meccanismo che non convince a pieno i critici.
Tale soluzione fa infatti cadere la distinzione tra i Paesi considerati economia di mercato e quelli che non lo sono, aprendo quindi alla Cina. Pechino dal canto suo punta tuttavia a un riconoscimento formale e si è appellata al Wto contro Ue e Usa il mantenimento della riserva sul regolamento antidumping contro i prodotti cinesi anche oltre il termine ultimo dell’11 dicembre. Esattamente ciò che temevano i tecnici dell’ufficio legale di Bruxelles