Partiamo dalla Cina, forse la più soddisfatta insieme a Kim Jong-un degli esiti del summit svoltosi sull’isola di Sentosa. Pechino, fin dall’inizio della crisi coreana nel 2017, ha portato avanti con metodica precisione la sua posizione della “doppia sospensione”: sospensione dei test missilistici nordcoreani, sospensione della presenza militare americana in Corea del Sud. L’obiettivo massimo di Pechino è quello di vedere svanire le basi americane in Corea del Sud ma Xi sa bene che questo obiettivo al momento non è negoziabile. Lo stesso Trump, nella conferenza stampa post summit, ha ribadito che le basi restano. Ha però aperto alla possibilità di sospendere le esercitazioni, ipotesi ribadita mercoledì da fonti della Casa Bianca e dallo stesso Moon Jae-in che ci starebbe seriamente pensando su.
Pechino — dunque — si prende il risultato ottenuto e in occasione della visita di Pompeo dei giorni scorsi ha ribadito di essere d’accordo con il mantenimento delle sanzioni contro Pyongyang, specificando però che è necessario pensare anche “alla sicurezza della Corea del Nord”. Nella partita coreana, però, Xi deve gestire un altro banco: quello delle relazioni commerciali con gli Usa. Un campo di gioco che sembra legato a doppio filo con gli sviluppi della vicenda coreana.
Quanto a Kim Jong-un, esce da questo round negoziale decisamente bene. Kim è stato affrontato da Trump come un leader di una potenza qualunque, sorvolando non solo sulla questione dei diritti umani in Corea del Nord ma anche su alcuni atteggiamenti internazionali da sempre sotto la lente di ingrandimento di Onu e organizzazioni internazionali — i rapporti con la Siria ad esempio in tema di armi chimiche -.
Kim ha ottenuto un documento ambiguo che fornisce spazio a nuove negoziazioni — e che più di tutto può consentire a Pyongyang di allungare i tempi, concedendo qualcosa in cambio di un alleggerimento delle sanzioni — e gli inviti a incontrarlo giunti da mezzo mondo, in particolare da Giappone e Russia.
Se Kim gestirà con intelligenza questa fase, potrebbe ottenere il massimo: in cambio di un lungo processo per la verifica della denuclearizzazone potrebbe vedere svanire le sanzioni e accumulare investimenti stranieri, pur mantenendo saldo il controllo sul proprio Paese. Una situazione ideale, con la possibilità di finire all’interno della Nuova via della Seta, come annunciato dai cinesi, ma senza isolarsi al solo sostegno di Pechino. Russia e Corea del Sud — e perfino gli Usa — si sono già detti a disposizione di potenziale sostegno economico. Se poi dovesse risolvere la questione dei rapimenti con il Giappone, Kim porrebbe la propria economia su binari insperati solo un anno fa.
In questo momento il risultato migliore che Kim potrebbe ottenere sarebbe l’apertura di un ufficio di rappresentanza Usa a Pyongyang e un trattato di pace con la Corea del Sud. Se si dovessero verificare questi due eventi, Kim sarebbe decisamente in una posizione perfetta dal suo punto di vista.
La Corea del Sud è un altro dei Paesi da annoverare tra i soddisfatti della piega degli eventi. Moon Jae-in è sicuramente il grande fautore di questa nuova fase e le elezioni locali con cui ha asfaltato le opposizioni due giorni fa confermano il suo momento di grazia. In modo molto intelligente Moon ha accolto il vertice di Sentosa con parole importanti — «è finita la guerra fredda» — ma poi è stato molto cauto sui passi successivi. Sulla fine delle esercitazioni, ad esempio, ha mostrato compostezza, comprendendo che una sospensione sarebbe un incredibile vittoria dei cinesi, così ha fatto capire di essere pronto a concordarla con gli americani ma si è preso il giusto tempo per ragionarci su. Intanto in questi giorni, dopo uno stop che durava dal 2007, sono ripresi i dialoghi militari con la Corea del Nord.
Chi non può cantare vittoria, invece, è sicuramente il Giappone. La girandola diplomatica che ha portato prima al summit di Sentosa e poi ai successivi incontri e proclami non gioca a favore di Tokyo. Abe ha notevoli problemi interni e vede sfumare quella solida alleanza con gli Stati Uniti a causa di un atteggiamento molto accondiscendente di Trump nei confronti del suo nuovo amico Kim Jong-un.
L’ipotesi, poi, di una sospensione delle esercitazioni tra Seul e Washington nella penisola coreana suona come un campanello d’allarme piuttosto rumoroso a Tokyo. L’idea è che gli Usa siano sempre meno capaci di portare avanti gli interessi giapponesi in questo rinnovato scacchiere asiatico. Si può dunque leggere in questo contesto la volontà di Abe di incontrare Kim: una soluzione per dribblare la mediazione di Trump e procedere in modo diretto a una negoziazione con Pyongyang.
A fronte di tutto quanto sta succedendo, infatti, Abe è obbligato a portare qualcosa a casa: risolvere la questione dei rapimenti nord coreani di cittadini giapponesi potrebbe essere un risultato capace di soffocare la sensazione che in tutta questa ridefinizione degli equilibri asiatici sia proprio il Giappone a rimetterci più di tutti.
di Simone Pieranni
[Pubblicato su Eastwest]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.