Cosa significa l’elezione di Trump per l’India

In by Simone

La stampa indiana sta interrogandosi su cosa potrà cambiare, in meglio o in peggio, ora che Donald Trump è stato eletto alla presidenza degli Stati Uniti. Si legge tutto e il contrario di tutto, banalmente perché la linea di politica estera di Trump al momento è roba da chiaroveggenti più che da analisti. Proviamo a mettere in fila un po’ di temi e leggere nei fondi di caffé di The Donald.La nomina a sorpresa di Donald Trump, oltre a far calare il buio sui progressisti di mezzo mondo, presenta per le diplomazie internazionali un enorme enigma: cosa cambierà con la nuova presidenza per i non americani dentro e fuori gli Stati Uniti?

Per l’India di Narendra Modi, in particolare, è un tema annoso da inquadrare il più presto possibile. Modi, negli ultimi anni, ha corteggiato costantemente gli Stati Uniti di Barack Obama cercando di proiettare la sua India verso una posizione di riconoscimento internazionale più prestigiosa, sia dal punto di vista politico sia, soprattutto, commerciale. La nomina di Clinton, in quest’ottica, avrebbe rappresentato una certa continuità, mentre oggi New Delhi – come il resto del mondo – deve fare i conti con un presidente degli Stati Uniti senza un passato politico che, in campagna elettorale, ha mandato messaggi controversi prevalentemente su misure di politica interna. Proviamo quindi ad andare a naso, e per punti.

Immigrazione

Uno dei cavalli di battaglia di The Donald, con giri di vite promessi per proteggere i lavoratori statunitensi dall’invasione della manodopera straniera a basso costo. Il caso che preoccupa l’India riguarda il visto H1B accordato ai lavoratori dell’IT indiano che, avvalendosene, hanno un’entrata privilegiata nei primi livelli delle grandi compagnie con sede negli Usa. Trump, riporta The Wire, in passato aveva annunciato di volerlo cancellare, in linea con la posa protezionista del mercato del lavoro, salvo poi sperticarsi in lodi a questi talenti stranieri che «vanno ad Harvard. Vanno a Yale. Vanno a Princeton. Vengono da un altro paese, si formano, e vengono immediatamente rispediti fuori. Io voglio che questi giovani di talento restino qui e lavorino nella Silicon Valley». L’identikit perfetto del migrante indiano che piace agli Usa. La stampa indiana, nei giorni scorsi, ha sottolineato come in campagna elettorale ogni candidato presidente dagli anni Novanta ad oggi abbia minacciato il taglio del visto H1B ma alla fine nessuno l’abbia mai concretizzato.

Imprese, outsourcing e investimenti negli Usa
In passato Trump ha minacciato di applicare una tassa del 35 per cento per i prodotti importati negli Usa provenienti da paesi in via di sviluppo. L’India teme quindi che l’export di prodotti informatici e tecnologici possa subire dei contraccolpi. Contemporaneamente Trump, per proteggere i lavoratori statunitensi, ha paventato una tassa del 15 per cento da imporre a chi esternalizza la produzione fuori dagli Usa, il che risulterebbe in un nuovo colpo mortale al comparto gestionale e di servizio che impiega migliaia di giovani indiani in India tra call center, compilazione dati, servizio clienti di compagnie statunitensi.

Per contro, indica Business Standard, Trump ha promesso un taglio dal 35 al 15 per cento della corporate tax per chi intende investire negli Stati Uniti. Una misura che ingolosisce le grandi multinazionali indiane e che farebbe degli Stati Uniti «una delle migliori destinazioni al mondo per il business». Ma anche qui, occorrerà attendere e vedere se il Trump infervorato e irragionevole della campagna elettorale lascerà spazio a un Trump più propenso al compromesso, un Trump statista (sì, suona ancora come un ossimoro, ma iniziamo ad abituarci a leggerlo e scriverlo senza ridere).

Cina e Pakistan
Come gli Usa di Trump si comporteranno con Pechino e Islamabad è probabilmente l’enigma più grande. La Cina, assieme al Messico, per il Trump in campagna elettorale hanno incarnato le origini di gran parte dei mali arrivati a valanga sugli Usa in questi anni. The Donald ha promesso di dare battaglia a Pechino su ogni fronte, dalle politiche monetarie alle regolamentazioni sull’export nella World Trade Organization, fino al groviglio geopolitico del Mar cinese meridionale. New Delhi, che è legata a Pechino da un rapporto obbligato di interdipendenza – le serve che Pechino importi prodotti e investa in India – vedrebbe naturalmente di buon occhio una «guerra fredda» spregiudicata condotta da Washington contro la Cina, interpretando un rallentamento di Pechino come un’opportunità di crescita per l’economia indiana. Lo stesso Modi, come ripetuto diverse volte in questo spazio, si è fatto interprete eccellente dei nuovi scenari geopolitici multipolari, evitando uno scontro frontale con Pechino in favore di un rapporto all’insegna della realpolitik: scontrarsi sulla diplomazia, lavorare insieme sul commercio, intrattenere relazioni fruttuose con tutti i principali attori della politica internazionale. Ma nell’eventualità – remota! – che Trump usi davvero il pugno di ferro contro la Cina, non è da escludere che l’India possa rivelarsi un alleato importante.

Sul fronte Pakistan, siamo alle solite. L’India da mesi sta cercando di sensibilizzare le cancellerie internazionali sulla necessità di schierarsi apertamente contro Islamabad, descrivendola come culla del terrorismo islamico nell’area. Una visione che si sovrappone perfettamente all’islamofobia da quattro soldi di Trump ma che, nel caso specifico del Pakistan, nel concreto comporterebbe un cambio di paradigma storico nelle relazioni tra Islamabad e Washington. Per decenni gli Usa, attraverso la vendita di armamenti e rapporti più o meno palesi coi servizi segreti e i militari, hanno partecipato attivamente alla politica pakistana, ora in chiave antiterrorismo islamico e, prima ancora, in chiave antisovietica. Un atteggiamento che ha sempre indispettito New Delhi e che oggi più che mai potrebbe essere cruciale per il futuro della regione. Il Pakistan è corteggiato dalla Russia di Putin e dalla Cina di Xi Jinping. Il sogno di Modi sarebbe accreditarsi a Washington come principale alleato in chiave anticinese nell’area guadagnando peso internazionale: rimane da vedere se questa ipotesi possa trovare spazio nei progetti della politica estera di Trump, quando ne avrà.

[Scritto per Eastonline]