Difficile dire qualcosa di nuovo quando si è ormai un mostro sacro dell’arte. Eppure Francesco Clemente ci ha provato, nella sua attuale mostra pechinese. Il nostro Alessandro Rolandi è andato a scavare nei dettagli dell’arte portata in Cina dal grande colorista. Francesco Clemente è un uomo talentuoso, carismatico, fortunato e questa aura «buona» lo circonda e circonda ancora il suo lavoro dopo ormai oltre 30 anni di carriera artistica ad alto livello internazionale. È un’aura senza lo scintillio «polished» freddo e distante della celebrità cool di oggi, e si alimenta, invece, da una fonte differente, a tratti lontana, forse un pò nostalgica e aristocraticamente distaccata, ma anche familiare, imbevuta com’è di simboli e conoscenza esoterica che hanno attraversato i secoli e le culture, dal bacino del Mediterraneo all’Asia minore, dall’India e dalla Cina stessa.
Clemente è sempre stato un artista nomade; studente di architettura, lascia presto la facoltà per «insegnarsi» a dipingere da solo e viaggia.
Raggiunge Alighiero Boetti in Afghanistan e condivide con lui, mentore e amico, la magia dei sufi e delle montagne di Kabul, nonché il desiderio di cambiamento e di ripensare il mondo scaturito dai movimenti degli anni Settanta e dalla ricerca di un’illuminazione poetica, pacifica, con cui agire su se stessi e sulla vita pubblica.
Subito dopo, con la moglie si installa a Madras, in India, dove rimarrà per più di dieci anni, dando vita a un legame sacro e profano con questo paese. Un legame che, pur diventando intermittente col tempo, non si interromperà più fino ai giorni nostri.
Quando si trasferisce a New York, negli anni Ottanta, si trova ancora a vivere e dipingere in uno dei momenti più interessanti della storia della città.
Tra la factory di Warhol e la vita del Village; poeti, rockstars, artisti e scrittori, alcuni sono già leggende viventi, come Bourroughs e Ginsberg, o Dylan e Lou Reed; altri, come Keath Hearing e Jean Michel Basquiat, Julien Schnabel, Patty Smith, lo diventeranno assieme a lui.
Altri amici, altri mentors, un’energia che continua, in cui tanti spiriti danzano e si incontrano nella festa infinita della New York che non dorme mai.
Ed è lì che l’intuizione intellettuale di Achille Bonito Oliva inventa un movimento col nome di «Transavanguardia» e raggruppa, attorno all’idea di una ritrovata soggettività e di una libertà da ideologie e dogmi (ormai ingombranti anche nell’Arte Povera), alcuni artisti che ripropongono il linguaggio pittorico in una vena personale e misteriosa, immediata e indipendente.
Enzo Cucchi, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Nicola Di Maria e ovviamente Francesco Clemente diventano i beniamini della scena artistica newyorkese e internazionale in parallelo allo sviluppo del Neo Espressionismo: una corrente artistica e pittorica che incoronerà presto artisti tedeschi (Immendorf, Kiefer, Luperz) e americani (Schnabel, Salle, Fischl) che con enormi tele figurative, ora primitive, ora aggressive, ora intimiste, ingombreranno letteralmente le gallerie e i musei del mondo intero, riproponendo una figura saturnina, dionisiaca e dominante dell’artista che fa i conti con la storia, col presente e con se stesso in maniera soggettiva e incondizionata.
Se però il Neo Espressionismo presto rivela un carattere eccessivamente egocentrico e una condiscendenza verso la spettacolarità e le dimensioni che sostengono non proprio indirettamente la retorica neoliberalista ed il free market degli anni Ottanta, le opere degli artisti italiani della Transavanguardia riescono abbastanza a evitare questa deriva e, a costo di parere visualmente ed energeticamente meno aggressive dei «campioni» tedeschi e Usa, mantengono una soggettività più intimista e intelligente, forse un po’ nostalgica nei contenuti esoterici, ma fondamentalmente nomadica ed aperta, in cui il rischio di ingaggiarsi in un rapporto sentimentale con la storia è schivato grazie all’eccentricità, alla sottigliezza poetica e a una maggiore leggerezza di fondo.
È con questa storia alle spalle, riassunta un po’ in maniera sommaria, che Clemente è arrivato quasi a settant’anni e sbarca a Pechino con una mostra allo Spring Art Center (inaugurata il 1 Settembre, ndr).
Ovviamente il suo lavoro ha raggiunto una tale fama da essere ormai iconico. Per l’artista è oggi quasi impossibile inon ripetere se stesso e proporre una qualsiasi innovazione che sia formale o contenutistica.
Appartenendo ormai a «ciò che è stato», il fatto di proporre un lavoro capace di toccare ancora la sensibilità del pubblico è molto difficile, soprattutto perché, a conti fatti, fondamentalmente non è più necessario né impellente.
Clemente potrebbe semplicemente «fare la star» e, come si dice, spassarsela celebrando se stesso, ma invece ci dimostra che l’avventura iniziata col primo viaggio tempo fa non si è mai interrotta e il viaggio è tuttora in corso, opponendosi all’entropia dell’abitudine che vorrebbe spegnerne la magia.
Con naturalezza e senza spettacolarità, il grande colorista ha preparato la mostra Pechinese lavorando con trasporto e passione, creando una serie di opere pensate e in parte realizzate appositamente per la Cina, in cui oltre a portare il proprio marchio di fabbrica, affronta dubbi, contraddizioni e incertezze personali, tecniche e culturali.
Nel grande murale «The tide of the Ocean of stories» – che si sviluppa nella sala maggiore dello spazio e si articola nelle variazioni tonali possibili di un rosso antico (che potrebbe essere un ocra chiaro) e di una lacca di garanza, che prende il nome dalla raccolta di storie Khatasaritsagara di Somadeva – osserviamo la scelta di rappresentare le silhouette di alcune figure e immagini archetipiche dell’immaginario indo-europeo, asiatico, e forse anche sudamericano (una donna con un abito di grandi dimensioni vagamente afro-brasiliano, un cinghiale a tre gambe, un teschio con fiori di loto nelle orbite, un pugno che tira su un pallone, un uomo appeso a delle corna di cervo a testa in giù, una coppia abbracciata nella bocca di un cavallo), la cui corporalità, è costituita da montagne e onde, la cui suddivisione rimane molto ambigua. Sia le figure umane che quelle mitologiche, gli animali e la grande vanitas centrale, pur essendo di grandi dimensioni, occupano lo spazio in maniera non prepotente.
Da lontano si percepiscono superfici organizzate in piani fluttuanti ma naturali e senza il rigore delle scomposizioni moderniste: più leggere, aeree e quasi immateriali. Avvicinandosi, si riconosce il pattern di onde e montagne rosse, ancora una volta delicate ma non preziose. A questo si aggiunge la scelta, toccante e poetica, di lasciare le linee di contorno dei vari tentativi a mano di definire i contorni delle figure, prima di quello definitivo.
Questo particolare, assieme alla disposizione spaziale, che come già detto, pur essendo monumentale, invece di «riempire» e di «pesare» sembra piuttosto fluttuare e dare movimento anche alle parti di muro vuoto, ci racconta come Clemente ami dipingere e disegnare e non si stanchi di farlo, senza chiedersi quanto importante o adatto sia alla contemporaneità.
Pur proponendo una tecnica raffinata (ma inventata da autodidatta), che gli consente di infondere ad ogni tipo di colore (dall’olio alla tempera) e superficie la stessa consistenza tremula e leggera dell’acquarello, non si ha l’impressione che stia ripetendo uno stile a memoria, o che ne cerchi possibili variazioni manieristiche e preziose, ma che continui a cercare un qualcosa, un’emozione, un disequibilibrio, ma anche una rottura o un errore che impediscano al suo lavoro di copiare se stesso.
Due serie di numerosi acquerelli su carta di dimensioni ancora modeste (attorno a 60×40), occupano rispettivamente due pareti ulteriori.
E se i colori nitidi e raffinati e i loro accostamenti in apparenza naturali ma ben sapienti, suscitano una risposta sensoriale gioiosa e a tratti fanciullesca (un po’ come, in un altro modo, le superfici di Chagall), l’articolazione dell’iconografia e uno specifico dettaglio ripetuto elaborano un messaggio alquanto differente, a tratti malinconico, ma anche fortemente critico, nascosto ed evidente allo stesso tempo.
Nascosto a chi, vedendoli da lontano, dice «ok questi sono gli acquerelli di Clemente, già visti mille volte»; ed evidente a chi, invece, avvicinandosi e dando credito alla sottigliezza di questo artista, si trova in ogni opera, nel mezzo delle forme e dei colori tipici, un trompe l’oeil di un’etichetta, di un poster di propaganda, o di un affiche cinese degli anni ’50-’70, a volte ironica nei confronti del resto della composizione, a volte semplicemente giustapposta esteticamente, altre volte con un significato ben preciso come nella bottiglia di veleno per topi, sostanza spesso usata in Cina da persone che tentano il suicidio come azione politica estrema di resistenza passiva.
Queste etichette non sembrano dipinte da Francesco Clemente, (anche se non sono riuscito ad accertarmene chiedendo in giro, per cui potrei sbagliarmi) ma da qualche artista invitato a contaminarne la composizione. Quale sia la modalità ufficiale di questo intervento non è importante, ma è interessante vedere come questi lavori così iconici siano stati contaminati da un elemento così estraneo come un trompe l’oeil realista, con le sue linee rette severe e il suo grafismo tipicamente politico, portatore di un’estetica autoritaria e «figee», in contrasto con le curve sensuali e mistiche delle composizioni dell’artista.
In una stanza accanto, una serie ripetitiva e quasi ansiogena di doppi autoritratti eseguiti su grandi fogli di riso con la tecnica tradizionale cinese ink and wash ricopre due pareti.
Qui il colore è assente e forse i riferimenti più forti sono le primissime opere esposte di Clemente (degli autoritratti surrealisti scomposti a inchiostro su carta Pondicherry fatta a mano) e il tema del doppio, tanto caro al suo amico e mentore Alighiero Boetti.
Queste opere tuttavia rimangono imprigionate sia concettualmente che visualmente dalla scelta di presentarle in maniera troppo «cinese», con tanto di sigillo rosso che riporta il nome cinese probabilmente dato all’artista durante il suo soggiorno pechinese.
Sono però le due grandi tele sulle altre pareti opposte e più corte della sala a confermare il tono della mostra: in una, dipinta in maniera leggera ed opaca con colori primari e una tecnica vagamente futurista (anche se sempre leggera) una serie di silhouette anonime di persone con lo zaino marciano in fila compatta, a testa bassa, da destra verso sinistra, inclinandosi leggermente fino a divenire orizzontali e a sparire sotto la tela, come inghiottite da una scala mobile. La tela, dipinta senza alcuna enfasi o spettacolarità, ci rimanda di colpo, in maniera diretta e Chiara, alla tristezza colorata della nostra società, in cui si procede anonimi, ma appunto coloratissimi, verso il nulla.
Opposta a questa, un’altra grande tela presenta una metà superiore con motivi calligrafici tra l’astratto ed il vocativo/religioso/esoterico dipinti in oro scuro su sfondo bianco, mentre nella parte inferiore, monocroma spenta e bruna (un colore alla Delacroix o alla Gericault, ma piatto e uniforme, senza sfumature o chiaroscuro), si distinguono le forme di molteplici figure umane nude abbozzate (tra cui ovviamente un autoritratto), in quella che assomiglia a un’orgia stanca, priva sia di trasgressione che di eros.
Gli sguardi sono rivolti all’osservatore, come se avesse scostato la tenda e stesse guardando la scena, svelando questa «festa andata male» in parte felliniana, ma in parte anche abbandonata dai colori e dalle sensualità indiane che furono e non sono più.
Forse non a caso, questa stanza è accanto alla hall d’ingresso, in cui prima dei dipinti troviamo alcune sculture in bronzo, risultato della fusione di assemblaggi di vari oggetti comuni e simbolici e strutture lignee primitive che le innalzano a due metri e più di altezza, facendo da piedistalli.
Queste sculture-installazioni, per cui Clemente ha scelto una patina metallica bianco-grigiastra che ricorda i colori dei vecchi impianti industriali dell’area di Dashanzi che ormai sembrano vecchi monumenti in omaggio alla distopia maoista, ripropongono altri simboli esoterici, come l’uovo d’oro, il carro (forse dei tarocchi?) il paniere e la scala, tutti appoggiati sulle citate strutture riconoscibili, originalmente di legno e bambù.
Al centro della sala ancora un autoritratto, una testa su una scala-scaffalatura, da cui partono quattro catene argentee, che si arrotolano ciascuna su fascine nerastre anch’esse fuse in bronzo. Difficile recuperare precisamente i molteplici significati sapendo come tutta l’opera e la vita di Clemente si sviluppino tra i mantra, i tarocchi, la teosofia, l’alchimia, l’astrologia, gli i-Jing, il taoismo e come la sua iconografia spazi dal cristianesimo antico all’Egitto e all’induismo, passando per l’antichità classica greco-romana (come nell’altro delicatissimo dipinto di grandi dimensioni a tempera su tela, in cui su uno sfondo verde acqua una colonna giace spezzata).
Se il suo lavoro da sempre scava nei sedimenti della cultura occidentale, sbilanciandosi e contaminandosi di elementi filosofici e visivi esterni e lontani, il fatto che sia sempre assente l’elemento glamour fa sì che siano piuttosto gli aspetti lirici, teatrali e simbolici a essere messi in evidenza, e che si possa riconoscere sempre un certo incanto sia nel suo sguardo verso la vita, sia nell’esecuzione manuale del gesto.
Senza dubbio la diversità e la bellezza di un nomadismo vivente e non acquistato o mimato, risaltano nella coerente eterogeneità di quest’uomo e della sua opera, non solo artistica, ma di vita.
Tuttavia, se questi aspetti saranno sicuramente messi bene in evidenza da parecchi altri testi critici, vorrei però sottolineare come a me sembri che, in questa sua mostra pechinese, Clemente abbia saputo «incorporare» astutamente anche una certa critica all’omologazione della società di consumazione contemporanea, asiatica ed occidentale, nonché qualche punzecchiatura alla Cina, che consiste nell’ambiguità provocatoria con cui, ad esempio, ha lasciato invadere i suoi acquerelli dalle affiche cinesi in trompe l’oeil.
Guardando bene anche il murale in cui l’ocra rossa si appropria di tutto (del mare e delle montagne, così come delle figure simboliche e degli elementi delle culture del mondo) e il teschio con i fiori di loto nelle orbite, è difficile negare un sentimento di oppressione e di invasione, nonostante l’eleganza e la leggerezza d’esecuzione.
Potrebbe anche essere che Clemente usi il suo vocabolario a tratti jodorowskiano, per evocare o suggerire un pensiero sul rapporto della cultura cinese con la propria storia e le proprie vicende politiche; e che dire delle catene e di altri elementi, colori e/o materiali dall’aspetto e dalle risonanze piuttosto sul «lato oscuro»?
Sarebbe forse strano aspettarsi tutto ciò da un artista per cui pluralità e libertà sono stati gli assi cardinali dell’esistenza e della ricerca? Chissà, ma comunque penso che questo angolo di lettura sarà accuratamente evitato, o messo da parte, come una forzatura, perché è sempre meglio cercare di adoperare gli aspetti accomodanti di un artista celebre e ripetere quello che dice il coro, per fare eco a se stessi e procacciare buoni affari. Da un altro lato, quando si vuole giocare sull’artista critico ormai lo si fa citando opere spesso cariche di aggressività banale, prevedibile e scontata, ma appunto, per questo, facili da promuovere.
Nonostante per alcuni la sottigliezza, la sensibilità e l’intelligenza di un intervento critico complesso e ricco di suggestione e di qualità siano davvero interessanti, e siano davvero ciò che l’arte dovrebbe portare, per la maggioranza forse non è necessario oltrepassare il primo livello diretto di espressione e interpretazione spettacolare e chiassosa da talk show, di cui resta solo un rumore di fondo sordo.
Le immagini a tratti troppo sognanti o indulgenti di Clemente forse possono indurci nel pericolo della nostalgia dei tempi da cui vengono artisti come lui; ma, in fondo, la loro ambiguità non è ancora così scontata, e la loro capacità di toccare ancora nel vivo non è affatto da sottovalutare.
E, comunque, i tempi da cui vengono quelli come lui non sono un’invenzione di propaganda, sono esistiti davvero.
FreeVantablack è la rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito.
«Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.]
* Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.