Nello stesso giorno Pechino ha chiuso il G20 di Hangzhou con un documento nel quale ribadisce l’importanza, tra le altre cose, di una global governance e ha visto l’affermazione di deputati indipendentisti nelle elezioni legislative di Hong Kong. Un alert per la dirigenza di Pechino: i problemi sono nel cortile di casa.Xi Jinping ha fatto un figurone: l’organizzazione del G20 è andata bene, i cinesi ormai hanno una rodata esperienza nell’organizzazione di eventi internazionali; nel documento conclusivo tra le tante premesse è emerso anche il ruolo rilevante della Cina negli equilibri diplomatici-economici del mondo globalizzato.
Il G20 di Hangzhou segna infatti una discontinuità con il passato, data la «spinta» cinese al concetto di global governance, un cardine nuovo per le vecchie potenze, a cui si dovranno abituare nel prossimo futuro. È stato infatti un G20 «alla cinese», tendente al compromesso, anticipato dalla firma sul trattato del clima proprio da Pechino e Washington. Le dinamiche che dovevano trovare una soluzione in incontri al margine del meeting, vedi Siria, non hanno funzionato, ma Xi Jinping ha inserito il suo cardine, la global governance, nel documento conclusivo chiedendo dunque più spazio ai paesi emergenti nella gestione dell’economia globalizzata.
Quando Pechino parla di global governance e di crescita inclusiva intende proprio questo, come dimostrato con la creazione di una banca di investimenti a guida cinese. Le altre potenze dovranno adattarsi.
Per il resto il documento conclusivo invita a una crescita inclusiva, reale, pratica, senza per altro fornire dettagli sui metodi. La verità è che il meeting serviva fondamentalmente a due cose: a spingere per quello che già a Pechino chiamano «Hangzhou consensus», un successo organizzativo che pone la Cina al centro delle trame diplomatico-economiche mondiali e a ottenere incontri bilaterali capaci di smuovere la difficile situazione internazionale, Siria in primo luogo.
Questo secondo obiettivo si può dire non sia stato raggiunto. Sul resto si sprecano le buone parole, d’altronde la Cina ha ormai un trascorso di grandi eventi, dalle Olimpiadi all’Expo, ed è in grado di assicurare incontri di livello internazionale impeccabili dal punto di vista della forma. La sostanza non dipende certo solo da Pechino. I venti leader mondiali hanno poi concordato sul contrasto al protezionismo, ha detto Xi parlando nella conferenza stampa finale del summit, priva della sessione di domande e risposte e iniziata con oltre un’ora di ritardo.
Ma se da un punto di vista internazionale la Cina sembra ormai aver puntellato il proprio ruolo, i problemi arrivano in «casa». A Hong Kong infatti, nelle elezioni legislative, sono stati eletti alcuni dei principali oppositori di Pechino, protagonisti delle manifestazioni del 2014. Radicali e indipendentisti, avranno la possibilità di porre il veto alle forze «filocinesi».
Niente sarà come prima, il futuro riserverà sicuramente qualche sorpresa. La loro elezione, infatti, arriva al termine di una tornata elettorale dall’affluenza massiccia, la più grande nella storia del voto nell’isola, quasi il 60 per cento. Questi ragazzi eletti nel parlamento potranno esercitare diritto di veto in un’assemblea ancora a maggioranza filo cinese, essendo «eleggibili» solo una parte dei membri dell’organo legislativo.
E a marzo 2017 a Hong Kong si eleggerà il chief minister, il «primo ministro» della città: si tratterà di un voto fondamentale nel disegno futuro delle relazioni tra Cina e Hong Kong. Chi sono dunque i «kids on the block» – come li ha chiamati ieri il Guardian – neo eletti nel parlamento dell’ex colonia? Alcuni hanno davvero delle storie particolari e raccontano di una città in profonda evoluzione. Uno è Nathan Law, 23 anni, della formazione politica Demosisto.
Lui è stato uno dei leader della rivoluzione degli ombrelli, uno dei simboli di quei 79 giorni di occupazione delle strade che aveva trascinato gran parte della popolazione in uno scontro durissimo contro la Cina. Forse il «simbolo» di quelle giornate. Il secondo è Sixtus «Baggio» Leung, 30 anni, di Youngspiration; si chiama proprio così, «Baggio», in onore del calciatore italiano, il suo idolo sportivo.
La terza eletta in questa nuova onda è Yau Wai-ching, 25 anni, sempre di Youngspiration. Poi Cheng Chung-tai, 33 anni, di Civic Passion. E tra gli eletti anche Eddie Chu, di 38 anni, ambientalista che ha ottenuto il maggior numero di voti – 80.000 mila – e fautore di un programma elettorale che si propone di mettere in crisi, e probabilmente è la prima volta che accade a Hong Kong, la lobby immobiliare dell’isola. In totale i «localisti» hanno ottenuto 30 seggi, cambiando per sempre il volto politico della città.
[Scritto per Eastonline]