Il 1 marzo 2014 presso la stazione ferroviaria di Kunming, nello Yunnan (sud della Cina), otto uomini armati di coltelli si sono scagliati contro la folla, compiendo un massacro: 33 morti e 143 feriti. Per le autorità si è trattato di un attentato terroristico premeditato, organizzato da militanti legati ai movimenti separatisti uiguri dello Xinjiang. L’agenzia di stampa Xinhua ha definito questo evento come «l’11 settembre» cinese.
Negli ultimi anni la stabilità politica in Cina è stata minacciata fortemente da fenomeni di rivolta da parte della popolazione uigura, rivolte che hanno guadagnato l’attenzione dei media internazionali e delle associazioni per la tutela dei diritti umani attraverso una condanna della repressione messa in atto dal governo centrale. Sempre più frequentemente sentiamo parlare della Regione Autonoma dello Xinjiang come teatro di violenze interetniche. All’origine di questi scontri è il desiderio di separatismo della popolazione locale di etnia uigura dal governo centrale cinese.
L’etnia uigura, musulmana di lingua turcofona, è uno dei 56 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dal governo centrale e in virtù del loro desiderio di autonomia e di preservazione etnica manifestano da sempre opposizione contro il potere cinese. Negli ultimi anni l’escalation di proteste e violenze attuate dalla popolazione uigura ha catalizzato l’attenzione su questa regione. Difatti, durante gli anni ’90 la politica repressiva del governo cinese nei confronti della minoranza in questione ha determinato un rafforzamento del carattere islamico all’interno della comunità locale e ha favorito la creazione di organizzazioni che lottano per l’autonomia o l’indipendenza del popolo uiguro dello Xinjiang.
La regione in questione si trova nella Cina nordorientale ed è la più grande del paese per superficie. Si tratta di un’area grande circa cinque volte l’Italia e, in quanto zona di transito tra area orientale e occidentale è di grande importanza geostrategica. È inoltre l’unica regione «autonoma» della Cina popolata da una maggioranza musulmana e, insieme al Tibet, la sola amministrazione di livello provinciale in cui l’etnia cinese han rappresenta ancora una minoranza.
Per la Cina il controllo dello Xinjiang, in quanto naturale passaggio, aperto a chiunque volesse invaderla, è sempre stato importantissimo e molte dinastie hanno tentato di tenere le mani su questa provincia. Il territorio è particolarmente ricco di petrolio, uranio, carbone e rame. Si può quindi dedurre che il controllo di quest’area sia di vitale importanza per Pechino, che considera il desiderio di separatismo uiguro come un pericolo per la sicurezza nazionale e una minaccia per la stabilità del Paese.
Nonostante l’opinione pubblica in Occidente riconduca l’attaccamento della Cina dimostrato per lo Xinjiang a considerazioni geopolitiche o alla questione delle risorse, le ragioni fondamentali che caratterizzano l’interesse cinese per questa regione vanno ricercate anche nel carattere storico e nelle privazioni subite dalla Cina in epoca coloniale.
Se non ci fosse l’autoritarismo del Partito Comunista Cinese e se non esistesse alcuna ricchezza nello Xinjiang molto probabilmente il governo dimostrerebbe lo stesso interesse per la regione come reazione alle privazioni avvenute in epoca coloniale. La volontà di stabilire un forte controllo territoriale in questa zona si esemplifica così come necessità di preservazione della sovranità cinese dopo il periodo di penetrazione delle potenze imperialistiche nel diciannovesimo secolo.
Obbiettivo della tesi è stato quello di rintracciare le motivazioni alla base del conflitto nello Xinjiang, comprendere le ragioni che hanno portato alla radicalizzazione degli episodi di protesta nella regione ed analizzare le controverse politiche di repressione e controllo attuate dallo Stato in questa regione. Sono stati poi studiate le strategie internazionali sviluppate da Pechino riguardo la questione uigura ed è stato evidenziato come il governo cinese, definendosi vittima del terrorismo islamico uiguro ed etichettando le insurrezioni avvenute nel corso degli anni ’90 come fenomeni di terrorismo organizzato, sia riuscito ad ottenere la legittimazione internazionale circa l’inasprimento delle politiche di controllo attuate nei confronti della popolazione uigura.
Nella prima parte si è presentata la disputa storica tra la storiografia ufficiale e quella dei nazionalisti uiguri. Tra queste due posizioni si è creato negli anni un acceso dibattito riguardo le origini del popolo uiguro e la controversa faccenda dell’appartenenza della regione occidentale alla Cina nel corso del tempo. Gli storiografi di Stato sostengono che lo Xinjiang sia da sempre territorio cinese e che la Cina abbia un legame millenario con questa area, mentre i nazionalisti uiguri ritengono che le tribù turco-uigure furono le prime abitanti della regione e che quelli che loro considerano «invasori han» siano arrivati nella regione in un determinato momento, pertanto considerano lo Xinjiang come la loro madrepatria e rivendicano l’indipendenza della regione dal potere dominante dei cinesi han.
Un excursus dello status politico della regione dalle origini sino all’instaurazione del potere centrale nel 1949 permette di mettere in luce i periodi di maggiore e minore integrazione dello Xinjiang alla Cina dalle origini sino alla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Per quanto concerne l’influenza delle dinastie cinesi precedenti ai Qing (Qin, Han e Tang) il controllo della regione è stato caratterizzato da una forte instabilità a causa della presenza di popolazioni nomadi e tribù turche. Di fatto l’Impero cinese riuscì a mantenere il controllo, attraverso delle milizie presenti sul posto, solo per brevi periodi. Per il resto le oasi della regione occidentale furono dominate dalle confederazioni turco-mongole.
Solo nel diciottesimo secolo si verificò un punto di svolta sull’effettiva influenza cinese nella regione, quando nel 1884 lo Xinjiang venne integrato realmente al resto della Cina e diviene ufficialmente provincia dell’Impero cinese. La regione diventerà parte inalienabile della Cina e le popolazioni saranno sottoposte a un processo di assimilazione e sinizzazione per rafforzare l’autorità cinese. Tuttavia, se in questo periodo si evidenzia un certo grado di rafforzamento del controllo cinese, con la caduta della dinastia Qing, nel 1911, lo Xinjiang conosce un periodo di turbolenza per lo scatenarsi di alcune rivolte interne, dovute alle politiche restrittive nei confronti della popolazione indigena e ai casi di corruzione e estorsione delle forze militari cinesi. Così, nell’inverno del 1932-1933 delle ribellioni nelle oasi del bacino del Tarim portarono alla fondazione di uno Stato indipendente: la Repubblica Islamica del Turkestan Orientale. La nascita di questo stato è tutt’ora simbolo importantissimo del nazionalismo uiguro proprio perché per la prima volta si registra la rivendicazione esplicita di indipendenza della regione dal potere cinese. Però, a causa della mancanza di un riconoscimento a livello internazionale, l’esperienza di questa Repubblica terminò nel giro di pochi mesi. A distanza di un decennio altre rivolte locali permisero ai ribelli uiguri di proclamare la seconda Repubblica indipendente del Turkestan Orientale (1944), ma la leadership di questa nuova repubblica abbandonò la rivendicazione di uno stato indipendente turco e cominciò a tessere delle negoziazioni per la creazione di un governo di coalizione con il partito nazionalista del Guomindang.
È nel 1949, alla fine della guerra civile tra il Partito Comunista Cinese e il Guomindang, che con la nascita della Repubblica Popolare Cinese e quindi la realizzazione di un forte potere centrale, la Cina comunista riesce definitivamente a legare la regione occidentale sotto la propria influenza e controllo.
Da questo momento la radicalizzazione ideologica della politica alla fine degli anni ’50, e soprattutto durante la Rivoluzione Culturale, minò fortemente l’influenza politica dell’etnia uigura nella loro regione. Gli uiguri furono scarsamente rappresentati a livello politico e subirono forti politiche discriminatorie. In seguito, dagli anni ’90, la politica del partito nella regione si è focalizzata su quattro obiettivi strategici: la centralizzazione delle decisioni economiche, l’immigrazione di massa dei cinesi han nello Xinjiang, e l’aumento della repressione religiosa e culturale, tutti aspetti che hanno acuito l’insoddisfazione del popolo locale.
L’attenzione si è quindi focalizzata sullo studio delle implicazioni socioeconomiche della strategia politica attuata dalla Rpc e sono state esaminate nel dettaglio le discriminazioni etniche che questa politica ha apportato nel campo economico, linguistico e religioso. In particolar modo si sono evidenziate le strategie di controllo nel campo religioso, quelle di assimilazione in quello culturale e i contraddittori tentativi di sviluppo economico promossi dal governo centrale nella regione.
Con alto grado di probabilità, gli attuali conflitti interetnici della regione occidentale possano essere collegati alla strategia politica di assimilazione promossa dal Partito Comunista Cinese. Il fallimento dei tentativi di sviluppo promossi dal PCC non hanno fatto altro che acuire le disparità economiche tra cinesi han e uiguri, e la repressione dell’espressione culturale e religiosa della minoranza ha determinato nella popolazione uigura la percezione che la dominazione cinese minacci la propria sopravvivenza e identità.
Il controllo di aree con forte presenza delle minoranze etniche ha sempre costituito un ostacolo per la realizzazione dell’unità nazionale. Alcuni Stati tentano di risolvere questo problema all’interno di una cornice democratica con la promozione di una serie di politiche accomodanti, mentre altri, come la Cina, cercano di stabilire il dominio sulle minoranze adottando una strategia di controllo.
Per quanto concerne la sfera culturale all’interno del progetto di promozione dell’unità nazionale è stato posto un rigoroso controllo nella circolazione di opere in lingua uigura e limitati gli ambiti d’uso della lingua locale, componente inalienabile del carattere della minoranza. Per quanto concerne la politica religiosa, l’espressione della religione nella sfera pubblica è stata fortemente ostacolata e dato che l’Islam viene considerato elemento inalienabile dell’identità uigura, la sua sopravvivenza è stata percepita come una minaccia per la coesione nazionale. Un reportage di Amnesty International del 1999 sullo Xinjiang riferisce della campagna verso «l’educazione all’ateismo» promossa dal PCC nel 1997. Nel programma di questa campagna viene espresso chiaramente come i musulmani che lavorano in uffici governativi o altre istituzioni ufficiali hanno il divieto di praticare la religione islamica, e l’osservanza ossequia di questa potrebbe portare alla perdita del lavoro.
Per quanto concerne i membri del partito, nel contesto della stessa campagna, il giornale Xinjiang Daily ha riportato come i membri del partito, i quali credono fermamente nella religione islamica e rifiutano di modificare le proprie abitudini, sono costretti affrontare un processo di rieducazione o vengono respinti dal partito, secondo la gravità del loro caso. Per quanto riguarda la sfera economica, i tentativi di sviluppo della regione sono stati promossi per placare il malcontento sociale e lo scontento di chi era stato escluso dallo sfruttamento delle risorse della regione a causa della massiccia immigrazione han. Ma nel corso della tesi è stato sottolineato come a beneficiare dell’accelerazione economica siano stati sempre i cinesi han, registrando quindi una forte crescita delle disparità economiche tra han e uiguri. La realizzazione di strutture paramilitari come quella dei Corpi di Produzione e Costruzione dello Xinjiang destinate a investire nel territorio e la promozione di campagne come quella de Il Grande Balzo ad Ovest o del Leaprog Development anziché promuovere un equilibrato sviluppo economico che garantisse un margine di guadagno anche alla popolazione locale ha determinato il monopolio del settore economico regionale da parte degli han. Tutte queste politiche di controllo e di assimilazione hanno amplificato la percezione degli uiguri che la dominazione cinese minacci la cultura locale, portando così ad un’intensificazione dei conflitti interetnici.
Nella parte finale dell’elaborato si è poi presentata la risposta della comunità uigura alle strategie politiche cinesi, analizzando l’escalation di proteste verificatesi nel corso degli anni ’90. È stato notato che nonostante gli attentati e le violenze degli ultimi vent’anni rappresentino la componente più nota del conflitto nello Xinjiang, fornirne una visione veritiera e lontana da ogni tipo di distorsione non è compito semplice. È importante comprendere la natura di queste proteste e ancora più rilevante è capire se la retorica della Rpc, che accosta le violenze perpetrate dai separatisti uiguri al fenomeno del terrorismo, sia una tesi da accettare in modo acritico.
A questo proposito si è analizzata la presunta relazione tra l’organizzazione separatista locale l’East Turkestan Islamic Movement (Etim) e l’organizzazione terroristica di Al Qaeda per comprendere se le organizzazioni pro-indipendenza della regione abbiano stabilito concreti rapporti con le organizzazioni terroristiche internazionali come quanto sostenuto dalla propaganda ufficiale della Rpc. Sulla base di alcune testimonianze si è concluso che se molto probabilmente alcuni rappresentanti dell’Etim abbiano stabilito dei contatti con i talebani di Al Qaeda, sembra improbabile che questi abbiano fornito ai separatisti uiguri degli aiuti effettivi. Inoltre, un’analisi più attenta dei vari attentati e delle insurrezioni di matrice uigura ha dimostrato che solo una parte di questi possono essere collegati al fenomeno del separatismo uiguro. La maggior parte degli attentati sembra scaturire dalla crescente preoccupazione circa l’impossibilità di preservare la propria identità culturale e religiosa, dall’incapacità del governo cinese di garantire uno sviluppo omogeneo e dall’applicazione di politiche di assimilazione e di discriminazione nei confronti della minoranza.
Gli studiosi Fuller e Starr credono che la questione degli uiguri nello Xinjiang non si risolverà finché la minoranza turca percepirà che le sue radici culturali vengono costantemente minacciate. I due studiosi ritengono che attualmente non si stia assistendo a significativi movimenti circa l’attuazione di soluzioni che possano placare le insurrezioni più violente nella regione. Al contrario, pare che il problema dello Xinjiang stia peggiorando e che le rivendicazioni della popolazione uigura stiano assumendo un carattere sempre più estremista. A dimostrazione di ciò gli attentati degli ultimi anni (28 ottobre 2013 Pechino, 1 marzo 2014 Kunming, 22 maggio 2014 Urumqi) esplicano l’acuirsi della tensione e della crescita dell’attivismo radicale nella regione.
Così, la mancanza a livello internazionale della distinzione tra politiche di anti-terrorismo e soppressione dei diritti umani ha provocato la realizzazione di uno scenario in cui l’esasperato raggiungimento della sicurezza internazionale sembra giustificare nello Xinjiang la promozione di severe politiche di controllo e la soppressione di alcuni diritti umani fondamentali. La dinamica che tende a privilegiare la difesa della sicurezza a dispetto della protezione dei diritti umani è una tendenza evidente nello Xinjiang già nel corso degli anni ’90 con l’attuazione di politiche che limitavano gli ambiti dell’espressione culturale e religiosa. Tuttavia è successivamente agli eventi dell’11 settembre che Pechino ha ricevuto la legittimazione internazionale circa l’attuazione di questa strategia e ha adottato senza esitazioni la retorica della guerra contro il terrorismo per giustificare la repressione del governo contro l’opposizione e il dissenso uiguro. Sia Amnesty International che Human Rights Watch nei loro reportage sullo Xinjiang stimano che migliaia di uiguri siano stati arrestati tra il 2001 e il 2005, dati corroborati da organizzazioni uigure operanti all’estero.
*Cristina Idone, cristina.idone[at]tiscali.it, nata a Roma il 10 luglio 1993, ha conseguito la laurea in Mediazione linguistico-culturale con indirizzo Operatori nella Comunicazione Interculturale presso l’Università Roma Tre di Roma nel luglio 2016. Ha collaborato con la rivista online di attualità e cultura DailySTORM e da febbraio a luglio 2015 ha trascorso un intero semestre in Cina presso la Xi’an International Studies University.
**Questa tesi è stata discussa nel mese di giugno 2016 presso l’Università degli Studi Roma Tre. Relatore: prof. Mauro Crocenzi.