Dal separatismo uiguro all’attentato «autoprodotto», passando per la longa manus dello Stato Islamico. Si sprecano le interpretazioni per l’attacco di un kamikaze che ieri si è fatto esplodere all’interno dell’ambasciata cinese di Biškek. Un giorno prima delle annuali celebrazioni per l’indipendenza kirghiza dall’Unione Sovietica, un attentatore suicida forza con la propria auto l’ingresso dell’ambasciata cinese di Biškek, e si fa esplodere al suo interno, uccidendo se stesso e ferendo tre lavoratori locali, addetti alla sede diplomatica. L’agenzia di Stato cinese Xinhua include tra i feriti anche tre connazionale addetti alla sicurezza, per un totale di sei. Mentre scriviamo non è giunta ancora alcuna rivendicazione. L’inchiesta delle autorità del Paese centroasiatico e musulmano, fortemente caldeggiata da Pechino, è agli inizi. Per risalire all’identità del kamikaze si farà ricorso alla prova del Dna, ma le autorità kirghize hanno già parlato di «un terrorista». Qualche testata internazionale osserva come nota a margine che l’ambasciata cinese si trova di fianco a quella Usa. Fin qui i fatti.
Non si tratta del primo attentato anticinese in Kirghizistan. Nel 2000, separatisti uiguri – l’etnia turcofona originaria dello Xinjiang cinese – furono accusati dell’uccisione di due diplomatici di Pechino. Stessa pista per l’attacco del 2002, quando uomini armati spararono a Wang Teng Ping, primo segretario dell’ambasciata cinese a Biškek, e al suo autista, ammazzandoli. Nel marzo del 2003, 21 persone, tra cui 18 cinesi, furono rinvenute morte su un autobus incendiato, in un caso che i funzionari kirghizi descrissero inizialmente come «rapina e omicidio», per poi virare su una versione che accusava ancora una volta i separatisti provenienti dalla Cina, prontamente ripresa dai media di Stato cinesi.
Nel 2014, undici uomini provenienti dal lato cinese furono uccisi dalla polizia di frontiera kirghiza. Le autorità di Biškek confermarono che erano uiguri e spiegarono che rappresentavano un rischio per la sicurezza.
Kirghizistan e Xinjiang confinano, sono circa 50mila gli uiguri che vivono nel Paese centroasiatico.
La pista più scontata e gettonata punta quindi anche oggi verso l’indipendentismo uiguro. I media internazionali la pronunciano per ora sottovoce, i servizi di sicurezza kirghizi hanno già lasciato trapelare, non si sa su quali basi, che il kamikaze dovrebbe essere proprio un membro di quell’etnia.
Le istanze dei separatisti originari dello Xinjiang – che per Pechino sono sia un problema sia un comodo capro espiatorio – potrebbero oggi saldarsi con il malessere creato in Asia Centrale dal grande progetto made in China di rinnovata Via della Seta: un network di strade, ferrovie, gas/oleodotti, reti informatiche, infrastrutture e relativi investimenti che, partendo dallo Xinjiang cinese, dovrebbe rendere più vicini i due estremi di Eurasia.
Le repubbliche centroasiatiche sono già da tempo investite da questo processo che, se riempie le casse deficitarie degli Stati, crea nuove opportunità per i grandi tycoon e per il piccolo ceto medio che già sta emergendo ai margini del grande business, può anche provocare risentimento tra gli esclusi dalla spartizione della torta e tra coloro che vi vedono una forma di neocolonialismo economico. In tal caso, la saldatura tra disagio interno e separatismo uiguro nel nome di una identità etnico-religiosa transfrontaliera, sarebbe una brutta gatta da pelare sia per Pechino sia per i leader al potere nei Paesi dell’area. Proprio in queste ore si rincorrono voci contrastanti sull’ictus che avrebbe colpito Islam Karimov, l’uomo forte uzbeko, che negli ultimi 25 anni ha fatto fuori senza andare troppo per il sottile qualsiasi impulso fondamentalista presente nel proprio Paese. La sua quasi sicura dipartita (che sopravviva o meno) è un ulteriore elemento destabilizzante. Una nuova fase si sta aprendo in Asia Centrale, non si sa quanto complicata.
Non è invece al momento molto gettonata la pista Daesh (Isis), se non nella ormai consueta formula dell’attentato «in franchising», per cui la sezione propaganda del califfato mette postumamente il proprio brand su qualsivoglia atto terroristico dalla vaga connotazione «islamica». Le autorità del Kirghizistan detengono periodicamente sospetti militanti accusati di essere legati allo Stato Islamico, che li recluta in Asia centrale. Quanto è consistente il fenomeno? Qui, i dati reali si mischiano con le assortite e contrapposte propagande. Di recente, un funzionario turco ha dichiarato che uno dei tre attentatori suicidi coinvolti nell’attacco all’aeroporto di Istanbul fosse un cittadino del Kirghizistan. Rimane inevasa la domanda: perché la Cina?
Per rispondere, si può fare ricorso a una terza ipotesi, per ora taciuta dai più e molto complottistica: l’attentato «autoprodotto». Nostre fonti a Biškek ci hanno spiegato come da tempo le autorità kirghize facciano di tutto per accreditare una emergenza terrorismo, in un Paese dove del fantomatico Isis non ci sarebbe comunque traccia. Lo scorso luglio, i servizi kirghizi hanno dichiarato di avere sgominato proprio a Biškek la prima cellula Isis non solo del Paese, ma di tutta l’Asia Centrale. Secondo Franco Galdini, giornalista freelance residente da anni a Biškek, si trattava però di un gruppo di noti criminali legati allo spaccio internazionale di droga.
In tal caso, l’attacco anticinese di ieri potrebbe essere due cose: un «procurato spavento» alla Cina, affinché si adoperi di più nella cooperazione securitaria (va detto però che tale cooperazione è già in corso sotto l’ombrello della Shanghai Cooperation Organisation, «la Nato d’Oriente»); oppure un avvertimento di qualche Paese che non vede con favore l’eccessiva assertività di Pechino in Asia Centrale, così forte grazie alla violenza della moneta, così vorace di risorse e così efficace nel ridefinire alleanze, amicizie, sfere d’influenza. A Biškek, nella sede dei locali servizi segreti, c’è un ufficio gestito dall’Fsb russo. Dopo lo smantellamento della base statunitense di Manas nel 2014 (avvenuta anche su pressioni di Mosca), russi sono i finanziamenti all’esercito e l’ammodernamento bellico, russi i gasdotti e gli investimenti in infrastrutture. Molti definiscono il Kirghizistan uno «Stato satellite» della Russia, tant’è che il presidente Almazbek Atambayev ha di recente tentato un avvicinamento/diversivo con Angela Merkel, dopo il rallentamento del flusso di capitali in arrivo da Mosca, per via delle sanzioni. Ma il Kirghizistan resta «cortile di casa» per Putin.
Qui però siamo nella fantapolitica, in un film che mixa il «Grande Gioco» di Hopkirk con uno 007 sulla Via della Seta.