«Faccio quel che posso, e se non funziona non resta che rivolgersi a un tempio più grande con divinità più potenti. E’ come per gli ospedali: se uno piccolo non riesce a curare il problema, tocca provare con uno più grande». Tao ha ottant’anni e da otto pratica rituali taoisti in un tempio incastonato tra le montagne dello Hunan, nella Cina centrale; comunica con gli dei e cura le malattie fisiche e mentali prescrivendo sacri rimedi.
Nelle campagne cinesi, le superstizioni, la medicina tradizionale, l’agopuntura, e il Tai Chi giocano ancora importanti ruoli complementari nel trattamento di pazienti con disturbi mentali, tutt’oggi considerati alla stregua di semplici sbilanciamenti energetici o di influssi demoniaci. Uno studio del 2007 condotto nella zona rurale di Liuyang dai ricercatori della Central South University di Changsha mostra che il 67 per cento degli schizofrenici cinesi preferisce ricorrere a cure popolari prima di rivolgersi agli istituti mentali, e non è detto lo faccia. Delle oltre 61mila persone intervistate in 23 villaggi, 220 avevano manifestato diversi gradi di schizofrenia.
Secondo un rapporto di Lancet, la Cina è uno dei Paesi con il più elevato tasso di malattie psichiatriche, attorno al 17,5 per cento nel 2009, contro il 26,4 per cento degli Stati Uniti in testa alla classifica mondiale. Si parla di 100 milioni di malati (16 milioni giudicati gravi) di cui solo il 20 per cento gode di un trattamento medico. La rivista scientifica avverte che il numero di tossicodipendenti e malati mentali con disturbi neurologici è destinato ad aumentare del 10 per cento nel periodo 2015-2025. Tuttavia, il 40 per cento dei pazienti con disturbi psicotici non si è mai rivolto a professionisti della salute mentale; la percentuale tra le persone soggette ad ansia e alterazione dell’umore scende al 6 per cento.
«I pazienti scelgono di cercare l’aiuto della medicina tradizionale cinese, perché – soprattutto i meno istruiti – non ritengono che il “cattivo umore” sia una malattia mentale», spiega a Sixth Tone un professore della Xiangya School of Public Health at Central South University. «Vanno dai praticanti di Tcm per problemi fisici, come l’insonnia, la stanchezza, e la letargia, che in realtà sono proprio i sintomi della depressione». Un malessere che – stando ad una ricerca condotta dall’ateneo – è responsabile per il 40 per cento dei suicidi tra gli anziani residenti nelle campagne.
Ma se l’ignoranza costituisce la principale causa «dell’allergia» all’aiuto di specialisti, in realtà i fattori ad allontanare i cittadini dalle strutture sanitarie sono molteplici. Nella seconda economia mondiale «malattia mentale» fa rima con corruzione, disonore e spese insostenibili. Oltre alla reticenza nel riconoscere l’esistenza di un problema avvertito a livello sociale come fonte di vergogna, pratiche discutibili concorrono ad alimentare la diffidenza generale verso gli ospedali psichiatrici. Nel corso degli ultimi anni non sono mancate storie di detenzioni coatte ai danni di attivisti, petizionisti e «nemici del regime», rinchiusi in centri psichiatrici dalle autorità locali intenzionate a sbarazzarsi di scomodi detrattori. A causa dell’inaccuratezza dei controlli medici, è capito che persone perfettamente sane siano state ricoverate su pressione dei parenti in seguito a dispute famigliari, venendo «sottoposte ad abusi continui». Un fenomeno noto con il nome di bei jingshen bing, «essere trasformati in malati mentali». Nel 2013, il direttore del quarto ospedale del popolo di Urumqi, capitale provinciale dello Xinjiang, ha riconosciuto che tra il 70 e l’80 per cento dei malati presenti nella struttura erano stati ammessi forzatamente.
Nelle aree rurali, volenti o nolenti, per molti il ricorso a santoni e divinatori risulta ancora l’unica opzione possibile. Gravi carenze di risorse mediche sono state rilevate nelle 832 contee più povere del Paese, dove i bassi salari faticano ad attrarre personale qualificato. Per ovviare al problema, nel 2004 Pechino ha varato il «686 Project» (secondo Harvard «il più vasto e importante progetto sulla salute mentale a livello mondiale») mirato ad assicurare assistenza sanitaria «low cost», mentre dallo scorso anno il National Mental Health Working Plan 2015-2020 lavora con l’obiettivo di raddoppiare il numero degli psichiatri rispetto agli attuali 20mila.
La nuova riforma del sistema sanitario si inserisce nel piano con cui Pechino ambisce a liberare dallo stato di povertà 12 milioni di persone l’anno, da qui al 2020. Secondo un recente rapporto rilasciato congiuntamente dalla Banca Mondiale e dai ministeri cinesi della Finanza e della Salute, oltre la Muraglia le spese mediche crescono dell’8,4 per cento l’anno, un trend in buona parte trainato dalla prescrizione eccessiva di farmaci, attrezzature troppo costose e inutili, e dal sovraffollamento degli ospedali di prima categoria. Stando alle stime dell’istituto bancario, una pronta attuazione delle riforme in agenda si tradurrebbe in un risparmio dei costi pari al 3 per cento del Pil entro il 2035. Un contributo prezioso per il raggiungimento di una «società moderatamente prospera» (xiaokan shehui), termine mutuato dalla precedente amministrazione e inserito nei «quattro comprensivi» firmati Xi Jinping.
Dati ufficiali rivelano che in Cina il 44 per cento degli impoveriti deve il proprio stato di indigenza alle spese mediche troppo alte. Sebbene negli ultimi anni il governo cinese abbia ampliato le assicurazioni per coprire le malattie gravi, tuttavia circa la metà delle spese per le cure continua a ricadere sui malati e le loro famiglie. Una situazione che rischia di aggravarsi considerato che – secondo stime del Boston Consulting Group – entro il 2025 il costo dell’assistenza sanitaria personale dovrebbe crescere quattro volte, tanto da raggiungere gli 1,9 trilioni di dollari. Ecco che in alcuni casi appellarsi ai santi taoisti non aiuta soltanto a salvare la faccia, ma anche svariate migliaia di yuan.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.