Eppure la Cina, là fuori, nonostante la gentrificazione che avanza e il costo della vita che cresce, è ancora un’enorme installazione vivente di Robert Rauschenberg, in cui camion felliniani surrealmente carichi di ogni cosa si mescolano alle Tesla, ai Suv e ai treni ad alta velocità, e i conduttori di sanlunche riciclano bottiglie per tirare a campare e giocano in borsa col telefonino; in cui incredibili progetti di ingegneria sociale (come la conversione dei lavoratori migranti e della manodopera non specializzata nel settore dei servizi), si accompagnano alla tensione tra il bisogno crescente di una società civile e quello del controllo e della sicurezza. Robert Rauschenberg è stato probabilmente l’artista che avuto l’impatto più importante sulla giovane generazione di artisti cinesi nati negli anni ’60 e ’70.
La sua mostra-evento del 1985, «ROCI in China» – all’istituzione ora conosciuta come il National Art Museum of China – fu come un fulmine a ciel sereno. Ci andarono oltre 300mila visitatori e divenne il punto di partenza della «85 NewWave» degli artisti contemporanei cinesi.
La mostra ebbe luogo in uno dei periodi di massima apertura della Cina, sia dal punto di vista culturale sia da quello politico. Un elan di desiderio, partecipazione e cambiamento di una freschezza e spontaneità unici, poi soffocato nel sangue dal crack down di Piazza Tian’an Men ’89. Da allora si è risvegliato solo parzialmente e in maniera troppo subordinata all’esplosione consumista negli anni che dal 2002 al 2008 hanno portato ai Giochi Olimpici di Pechino. In seguito, «apertura» è sempre più stato sinonimo soprattutto di apertura dei mercati, mentre la dimensione culturale e politica ha lentamente cominciato a richiudersi a causa di un intricato sistema di censure, provvedimenti, paura e opacità che sembrano rinforzarsi con il «regno» quasi assoluto di Xi Jinping.
Nonostante questa chiusura progressiva non sembri capace di bloccare tutto ciò che era cominciato in Cina (un vero movimento artistico, una rete di istituzioni, gallerie e musei e un mercato, anche se troppo sfrontato e speculativo), resta il fatto che il ripresentarsi di norme aggressive e punitive nei confronti degli operatori culturali e socio-politici (la chiusura delle sale concerti e dei festival di documentari e cinema indipendente, oltre che delle Ong) sta lentamente «fiaccando» e spegnendo il desiderio di impegno personale per costruire progetti di valore.
Bisogna dire però che nell’evoluzione della censura, sembra (perche in Cina tutto sembra….ed è difficile sapere ciò che è) che il governo abbia concentrato i propri sforzi su forme e medium culturali capaci di raggiungere il grande pubblico (appunto film, documentari, concerti e musical) lasciando relativamente «tranquilla» l’arte contemporanea. In parte perché le autorità contano su un mercato efficiente, che promuove opere di scarso interesse socio-politico garantendo importanti guadagni agli artisti; in parte perchè nella maggior parte dei casi il livello di comprensione del contemporaneo, anche quando sottilmente se la prende con le istituzioni, rimane limitato agli esperti, agli spazi indipendenti stranieri e poco più.
Secondo questa logica, «osservare» gli esperimenti che non costituiscono una minaccia è per le elite e il governo molto interessante: raccolgono idee e ispirazione. in maniera furbo-pragmatica tipicamente cinese.
Ecco allora che la scelta di Ucca di riportare Rauschenberg in Cina oggi, con una retrospettiva focalizzata sul lavoro di molti anni fa, diventa interessante, perchè potrebbe trasformarsi in una strategia indiretta di rivitalizzazione intelligente e sottile.
Come già detto, Rauschenberg ebbe un impatto epocale e trasformativo nel 1985 e quindi ritorna come eco di se stesso, ma anche come eco di un momento speciale, ancora vivo nella memoria di chi l’ha vissuto e comunque non completamente estraneo alle nuove generazioni, purtroppo già anestetizzate dagli shopping mall.
Rauschenberg è stato un artista rivoluzionario, innovatore, cross-boundaries e di grandissimo successo economico e mediatico, cosa che lo rende un perfetto esempio da mostrare e da seguire secondo il pattern del successo pragmatico tipico del «sogno cinese».
Il suo lavoro è sempre stato fisicamente esuberante e «monumentale» non tanto nelle opere singole, ma nel modo in cui ha sempre riempito, accumulato, assemblato, recuperato, installato, una mole impressionante di materiali e oggetti eterocliti provenienti dalla vita reale: in maniera soprendente, originale, divertente e riconoscibile.
Nel corso degli anni non si è mai lasciato limitare da un medium ma ne ha inventati altri: nuovi, incompleti, mezzi tentativi e improvvisazioni.
Non si è mai posto il problema dell’esecuzione manuale o meccanica di un’opera e della sua unicità o riproducibilità. Ha creato in tutte le modalità che lo interessavano.
Considerato da molti l’iniziatore (o comunque una delle figure di riferimento fondamentali) della pop art, Rauschenberg non si è mai opposto e non ha mai criticato il mercato in sé, perché lo ha sempre considerate come qualcosa di necessario a sostenere la sua ricerca e perché la sua sfida è stata fin dall’inizio quella di creare un mercato per la «spazzatura» che trasformava in opera d’arte.
Allora, fermandoci a questi aspetti generali e superficiali, potremmo, con un accostamento azzardato ma divertente, dire che Bob Rauschenberg è stato un precursore dell’imprenditore (e anche dell’artista) cinese (o anche italiano o mediterraneo): un po’ artista, un po’ farabutto, un po’ geniale: grande lavoratore sempre in ebollizione, ma con un fondo pigro e opportunista (nel senso della scelta temporale), che arriva a imporre quello che fa, senza che si capisca esattamente cosa sia.
Se queste qualità sono le garanzie della sua sdoganabilità in Cina a livello ufficiale, quelle che potrebbero restituirci il ricordo del 1985sono altre: una combinazione di gioiosa libertà e inspirazione e una vena provocatoria, radicale e appassionata, ma che si riconosce più nella sovversione individuale del naughty boy, che in quella «ordinata» del militante politico o dell’attivista.
Nell’ opera magna, «The ¼ mile or 2 Furlong piece», che è stata realizzata in 17 anni, dal 1981 al 1998, e che si snoda per 305 metri e 190 sezioni nella grande sala di Ucca, ritroviamo una sintesi del percorso di Rauschenberg, dai suoi White Paintings ai celeberrimi Combines (in cui tele e oggetti svariati sono assemblati assieme creando rilievi scomposti ed estroflessioni di ogni genere); dai Gluts ai collage di immagini, alle fotografie trovate a caso; tutto assieme in un ritmo di colori, forme, superfici e segni impossibile da uniformare.
Cresciuto in un mondo dell’arte dominato dall’intellettualismo esasperato, ascetico, elitista e machista dei pittori espressionisti astratti (Rothko, Pollock, Newmann etc), che per primi avevano creato un’arte contemporanea americana originale di livello internazionale, (spostando il centro da Parigi a New York), Rauschenberg, omosessuale, colto e non dogmatico, interessato alla realtà, alla contaminazione e alla diversità e non alla trascendenza purista ideologico-militante, se ne allontana subito. E sentendo il peso e la difficoltà del confronto con l’ombra oppressive dei mostri sacri, inaugura la sua carriera con un gesto emblematico che diventa la sua prima opera provocatrice e sancisce la fine di un’epoca: con «Erased Willem De Kooning’s drawing» (titolo scritto dall’amico Jasper Johns per voler di Bob), nel 1953, Rauschenberg sposta il confronto accademico nella vita reale e fisicamente cancella un disegno ricevuto dal maestro DeKooning mostrandolo a tutti, da semi-sconosciuto, nel suo studio. Ed esibendolo poi nel 1963, pubblicamente.
Una volta sferrato il colpo mortale, inspirandosi all’esperienza della libertà, del viaggio a 360 gradi, e alle nuove influenze delle filosofie asiatiche introdotte dalla Beat Generation, assieme ai suoi amici, amanti e collaboratori storici, John Cage e Merce Cunningham, (che rivoluzioneranno rispettivamente la musica e la danza), Bob si getta a capofitto nel desiderio di colmare la distanza tra arte e vita, percorrendo le strade di una New York pericolosa e in fermento, (che alcuni amici artisti nati negli anni ’50 ricordano in qualche modo simile alla Pechino degli anni 2000-2010). Raccoglie tutto ciò che trova per poi riassemblarlo con immagini provenienti dalla pubblicità, dai media e dalla vita di tutti i giorni.
Sostenuti da un esiguo gruppo di galleristi ispirati, istituzioni innovative e flessibili e collezionisti coraggiosi, un gruppo di artisti trasformano l’immaginario collettivo.
Un’estetica ibrida, irriverente e provocatoria, democratica e inclusiva, in cui la «cultura» viene letteralmente trascinata nelle strade e viceversa, la realtà e l’esperienza popolare si riaffermano come i nuovi materiali artistici.
Nasce la pop art: un immigrato polacco, designer industriale dall’apparenza bizarra e fragile, espone una scatola di detersivo come opera d’arte in una vetrina e fa scandalo.
Poi affitta una fabbrica abbandonata che diventa il centro artistico del mondo.
I graffiti di Keith Hearing e Jean Michel Basquiat ricoprono i muri delle metropolitane e poi quelli delle gallerie di Soho.
All’epoca, anche un giovanissimo ragazzo cinese in cerca di avventura, di nome Ai WeiWei, si arrangia con lavoretti ed espedienti pur di essere lì.
In un atto di coraggio, Rauschenberg restituisce l’America a se stessa, testimoniandone la veridicità e la realtà delle sue caratteristiche contraddittorie, dinamiche, affascinanti e brutali. Un «nuovo mondo» dove tutto è possibile:
la realtà che l’arte astratta aveva abbandonato richiudendosi nella dimensione dell’esperienza soggettiva, a causa della sfiducia nelle immagini lasciata dagli orrori due conflitti mondiali, ritorna impura, cangiante e coloratissima.
E se la sublimazione della pop art presto si identificherà (fino a diventarne uno strumento) con la nuova ideologia del consumo, è proprio nel momento iniziale, con Rauschenberg, che il suo essere soprattutto testimonianza e contaminazione diviene liberatorio, multiculturale, poliedrico ed emancipatore.
Ricordo sempre come un amico pittore di paesaggi e mentore mi disse, mentre mi mostrava il lavoro di Rauschenberg:
«Vedi che tipo di artista è? È un paesaggista. Invece di dipingere il paesaggio di New York, ne recupera letteralmente i pezzi e li mette assieme, ma il suo gesto è molto simile a quando gli impressionisti, ribellandosi contro l’arte ufficiale, escono dall’atelier e vanno a dipingere dal vero. Lui esce e va nella vita e così “cambia” e fa transitare la figure dell’artista e lo statuto dell’arte».
Ora se proviamo ad immaginarci l’arte di Rauschenberg in Cina nel 1985, non è difficile capire come possa avere avuto un effetto così potente sugli allora pochi artisti interessati al contemporaneo.
L’elemento fondamentale di de-gerarchizzazione delle categorie culturali sta nell’appropriazione dei materiali, delle tecniche e degli approcci tradizionali, nonché dei prodotti industriali, senza rispettarne la regole di utilizzo, ma mettendoli al servizio della propria energia creativa. Così Rauschenberg diventa una rivelazione per quei pochi artisti e li aiuterà a cambiare la loro vita e a dare inizio all’arte contemporanea cinese.
L’arte di Rauschenberg è l’arte di una società aperta e la figura dell’artista da lui proposta è poliedrica e sperimentale, astuta e intraprendente, inafferrabile nella sua capacità di mutare e di usare qualunque cosa per «fare arte».
Rauschenberg rappresenta al meglio il paradigma del «trickster» che si oppone a quello dell’eroe (nella mitologia la differenza tra Hermes e Prometeo); attraverso un insieme di pratiche flessibili e sfuggenti, in cui la «furbizia», l’intelligenza e lo humour si sostituiscono all’atteggiamento severo, inflessibile e solenne dell’eroe che si erge solitario contro qualcosa. Il trickster trasgredisce le regole e fa transitare nuovi contenuti e messaggi, cambiando le cose senza ricorrere alla violenza e senza l’inevitabile sacrificio finale del pattern giudeo-cristiano o della tragedia greca.
In una Cina che deve fare i conti con la sua doppia natura di economia iper-capitalista e stato autoritario, in cui gli artisti di successo sono spesso diventati o burocrati di partito altrettanto ideologizzati o scaltri uomini d’affari senza scrupoli, anche arte e cultura rischiano sempre più di essere schiacciati da obblighi e censure, calcoli di carriera e business di bassa leva, cinismo e disillusione.
Oltre allo sbarramento della censura politica, a volte si percepiscono i sintomi di una stanchezza mentale e il peso di una serietà e di una professionalità eccessive, che impediscono ai giovani artisti di vivere e creare con passione, trasporto e giocosità, facendo loro dimenticare il potere di cambiamento insito nella pratica creativa, che scompare non appena diventa semplice mestiere.
Eppure la Cina, là fuori, nonostante la gentrificazione che avanza e il costo della vita che cresce, è ancora un’enorme installazione vivente di Robert Rauschenberg, in cui camion felliniani surrealmente carichi di ogni cosa si mescolano alle Tesla, ai Suv e ai treni ad alta velocità, e i conduttori di sanlunche riciclano bottiglie per tirare a campare e giocano in borsa col telefonino; in cui incredibili progetti di ingegneria sociale (come la conversione dei lavoratori migranti e della manodopera non specializzata nel settore dei servizi), si accompagnano alla tensione tra il bisogno crescente di una società civile e quello del controllo e della sicurezza.
Allora sarebbe bello che i giovani artisti cinesi, i meno giovani e il pubblico in generale, andassero a Ucca a vedere «¼ of mile» o le fotografie della «Study for Chinese Summerhall», gli appunti stropicciati e le lettere, I disegni e i rottami, e si informassero sulla mostra «ROCI in China» del 1985. E ne discutessero, ne capissero il significato e il messaggio più profondi: solo un’arte e una cultura vive e ispirate dalla realtà, condivise da tutti, possono aiutare a riempire l’immanente vuoto etico e socio-esistenziale.
Come i primi che nel 1985 videro le opere di Rauschenberg cambiarono se stessi e provarono a cambiare la storia, altri in seguito hanno continuato, nonostante le sconfitte. E nessuno dimentica oggi la toccante atmosfera creativa della Pechino degli anni 2000-2010, di cui anch’io sono stato un fortunato complice, e che oggi ha ancora bisogno di una iniezione di desiderio e comunità.
L’eco di Bob Rauschenberg viene da lontano e associandosi a una bella mostra vista di recente sulla Beat Generation, in una Parigi ferita dal terrore, ci ricorda come il fare arte con una gioia non sentimentale, onnivora e umana, sia allo stesso tempo un rifugio e un’arma contro il deserto là fuori.
Rauschenberg in China è a Ucca, 798 Dashanzi Beijing
dal 12-6-2016 al 21-8-2016
FreeVantablack è la rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito.
«Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.]
* Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.