Le politiche restrittive attuate da Pechino nella regione autonoma dello Xinjiang stanno spingendo musulmani insoddisfatti tra le braccia dell’Isis. A sostenerlo è un recente studio condotto dalla New America Foundation, think tank «non partisan» con base a Washington, che offre un identikit dettagliato dei foreign fighters uiguri sulla base di una serie di documenti fatti trapelare da un disertore dello Stato Islamico.
Portando ad esempio una serie di restrizioni – dalle limitazioni sull’osservanza del Ramadan al divieto per le donne di indossare il velo e per gli uomini di portare la barba – il report sostiene che l’atteggiamento liberticida mantenuto dal governo cinese è da considerarsi «tra i fattori ad aver spinto le persone a lasciare il paese per cercare un senso di ‘appartenenza’ altrove». Conclusione tratta dall’analisi di circa 4000 moduli di registrazioni appartenenti a reclute straniere approdate tra le truppe di Daesh tra il 2013 e il 2014, di cui almeno 114 provenienti proprio dallo Xinjiang; o meglio dall’East Turkestan, l’antico nome della regione ancora utilizzato dai separatisti e con cui tutti i miliziani uiguri citati nello studio hanno preferito identificarsi. I numeri rendono lo Xinjiang la quinta fonte di foreign fighters tra le provincie e le regioni riportate nella documentazione, preceduto soltanto da tre aree dell’Arabia Saudita e una della Tunisia.
Secondo il think tank statunitense, gli aspiranti jihadisti provengono più facilmente da «regioni con un passato irrequieto e rapporti federali a livello locale tesi». E la «disparità economica», che differenzia l’etnia maggioritaria han (i cinesi doc) e gli uiguri, concorre con la campagna repressiva a soffiare sul fuoco del malcontento popolare. Sopratutto a partire dalla fondazione della Repubblica popolare (1949), la provincia del «Far West» cinese, per usi e costumi più vicina all’Asia Centrale di quanto lo sia al resto del Paese, è stata interessata da un’ondata colonizzatrice di matrice han che non ha mancato di innescare reazioni violente a livello locale e non solo. Nella primavera del 2014, negli stessi giorni in cui il presidente Xi Jinping si trovava nello Xinjiang, un attentato dinamitardo presso la stazione ferroviaria di Urumqi ha indotto Pechino ad intensificare la campagna antiterrorismo dando il via a processi di massa ed esecuzioni multiple. Pochi mesi prima, nel marzo dello stesso anno, 31 persone erano decedute in un attacco per mano di presunti uiguri armati di coltelli a Kunming, nella provincia meridionale dello Yunnan, in quello che il governo ha definito «l’11 settembre cinese».
Le autorità puntano il dito contro i separatisti radicalizzati dello Xinjiang, alludendo a influenze d’oltreconfine e condannando la narrazione faziosa dei media occidentali restii a rimuovere il virgolettato dalla parola «terroristi» quando gli attentati avvengono entro la Grande Muraglia. Accusato numero uno è l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM), la sigla con quartier generale in Pakistan ed estensioni in Cina, Siria, Asia Meridionale e Centrale, che secondo vari esperti non esiste più da tempo, secondo altri si sarebbe riorganizzata sotto il nome di Turkistan Islamic Party (TIP)/Hizb al-Islami al-Turkistani. Il TIP, già rubricato nella «Terrorist Exclusion List (TEL)» statunitense e bandito dall’Onu, in settimana è stato incluso nel novero delle organizzazioni terroristiche dall’Home Office britannico. Nel luglio 2014, lo stesso leader dell’Isis Abu Bakr Aal-Baghdadi aveva speso parole di supporto in favore dei musulmani oppressi da Pechino.
Oltre a tracciare un’analisi quantitativa dell’adesione uigura al Califfato (precedentemente il Global Times aveva parlato di circa 300 miliziani tra Iraq e Siria), l’inchiesta della New America Foundation fornisce elementi qualitativi piuttosto rilevanti: le reclute uigure pare non abbiano alcun precedente nel jihad (il che smentirebbe un’affiliazione all’ETIM/TIP) e presenterebbero, rispetto alla media degli altri foreing fighters, minore esperienze all’estero, un grado di istruzione inferiore e uno scarso livello di indottrinamento religioso. Ben il 73 per cento di loro si è rivolto a Daesh dopo la presa di Mosul del giugno 2014, una vittoria che ha dato maggior lustro all’immagine del Califfato tra la comunità islamica internazionale. I moduli analizzati dal think tank rilevano inoltre la presenza di bambini fino a dieci anni d’età in relazione all’arrivo dei genitori nell’Isis. Un particolare che, come nel caso delle «jihad family» provenienti dall’Asia Centrale, parrebbe suggerire una radicalizzazione spesso indotta da necessità di ordine economico più che da una reale ispirazione ideologica. Anche se ormai sempre più spesso il coinvolgimento di interi nuclei famigliari viene utilizzato dai jihadisti per depistare i controlli durante il tragitto verso i teatri di guerra mediorientali.