Il mercato immobiliare di Pyongyang è in fermento e in continuo aumento. Il mutamento della città sembra quindi non risentire delle sanzioni internazionali. Ma lo sviluppo cittadino sembra riservato soltanto alla ristretta cerchia che gira attorno all’élite del regime. Da un paio di anni su Youtube circola un video che, almeno negli intenti, vuole essere un inno alla bellezza di Pyongyang, la capitale nordcoreana. Accompagnate da una musica struggente, le immagini, per una decina di minuti, guidano lo spettatore, come se fosse in auto, per le strade e le architetture della città illuminata.
Benvenuti a Pyonghattan. Il termine, una crasi con Manhattan, ha fatto capolino nei titoli di quotidiani e riviste. Tanto più in occasione del settimo congresso del Partito dei lavoratori coreano (6-9 maggio 2016), il primo in 36 anni. Per l’occasione il regime ha aperto le porte ai giornalisti stranieri. Tenuti fuori dall’appuntamento che ha ufficializzato l’ascesa al potere del giovane Kim Jong Un (del quale, peraltro, hanno dovuto seguire in differita le oltre tre ore di discorso), i cronisti e gli inviati hanno comunque avuto occasione di girare per la capitale e riportare le ormai consuete «rare» pillole di vita nordcoreana.
I più assidui frequentatori del paese non hanno mancato di notare i cambiamenti e lo sviluppo nello skyline della città. Crescono i palazzi di 20 e più piani, scrive l’inviato della Reuters, nel confrontare la capitale di maggio con quella vista a ottobre del 2015. Mirae Scientists Street è uno degli esempi della trasformazione urbana in corso: il viale che corre lungo il fiume Taedong è costeggiato da palazzoni in blu e in rosso (che sono anche i colori della bandiera nordcoreana), i cui appartamenti sono stati assegnati a scienziati, ingeneri e insegnanti. La strada è stata inaugurata lo scorso ottobre. Per la stampa di regime è «una struttura di cui andare fieri nella gloriosa era di Kim Jong Un». Motivo per il quale è diventata anche una delle tappe del tour deciso dal regime per i giornalisti accorsi a Pyongyang per l’assise del Partito, assieme a una fabbrica di cavi elettrici e a un complesso scientifico.
Il prossimo traguardo, annunciato lo scorso 18 maggio dall’agenzia Kcna, sarà la costruzione di Ryomyog Street. Il nome significa «lì dove l’alba incontra la rivoluzione coreana». Secondo quanto riportato, pare che lo stesso Kim ritenga l’area adatta a veder sollevarsi in alto i grattacieli: «Non si tratta semplicemente di costruire un viale» ha detto il Brillante compagno, «è una chiara occasione per mostrare lo spirito della Corea contro ogni sorta di sanzioni e pressioni degli Stati Uniti imperialisti e dei loro alleati».
Il mutamento della città sembra quindi non risentire delle sanzioni internazionali imposte in risposta ai test atomici e balistici condotti dal regime a gennaio e febbraio, seguiti da mesi di minacce e tensioni che hanno anticipato l’inizio del Congresso.
«Le costruzioni sono l’ennesima evidenza del crescente ruolo dell’economia di mercato», può pertanto commentare la Reuters. E, in un certo senso, non gli si può dare torto. La vivacità del mercato immobiliare di Pyongyang è merito dei donju. Sono i «signori dei soldi» spuntati già da una decina di anni, i cui investimenti stanno favorendo i progetti immobiliari e le costruzioni. A loro modo svolgono anche il compito di broker e agenti immobiliari, animando un mercato privato che scavalca le procedure di assegnazione degli alloggi basato sulla professione.
Chi ha soldi, scrive il coreanista russo Andrey Lankov, può trovare qualcuno disposto a vendergli casa. Ci si trova in una zona grigia, un po’ come per quanto avviene nei mercati semi legali, tollerati ma non normati, germoglio di economia di mercato nella Repubblica democratica popolare in cui trovare pc, telefonini, prodotti sudcoreani, merci d’importazione dalla Cina. È comunque un mondo ancora ristretto alle élite.
Pyonghattan, ha sottolineato Anne Fifield sul Washington Post, è la città dell’1 per cento della popolazione, «un universo parallelo per i ricchi figli della Corea del Nord». I prezzi degli immobili sono in aumento. Secondo uno studio del professore Jung Eun-lee dell’Università Gyungsang, le «proprietà di prestigio» possono arrivare a valutazioni sino a 150mila dollari. In media ci si aggira attorno ai 70mila dollari. I prezzi scendono invece quando ci si sposta dalla capitale. E le transazioni avvengono in valuta pesante, principalmente in dollari statunitensi. Da alcuni anni è anche in funzione un ufficio del governo per la gestione degli immobili, apparentemente un modo per normare gli scambi.
In un’analisi del 2014 il professor Lankov era già entrato nei dettagli di questo «mercato». Teoricamente i nordcoreani hanno la possibilità, se non di vendere e acquistare casa, almeno di scambiarsela, pur con alcune restrizioni territoriali. La scorciatoia per pompare il mercato è ricevere in cambio case con un valore inferiore alla propria, compensando la differenza in soldi (cui poi vanno aggiunte anche possibili stecche ai funzionari che seguono la registrazione dell’accordo).
A sostenere il mercato c’è inoltre l’interesse degli stranieri per il real estate nordcoreano. Per molti è uno dei pochi investimenti sicuri nel paese, portato avanti con contratti di lunga durata, anche oltre i 20 anni, con l’obiettivo di cogliere le opportunità che potrebbero spuntare nell’eventualità di una reale riforma e apertura economica.
Dalla sua salita al potere, alla morte del padre Kim Jong Il nel dicembre del 2011, il poco più che trentenne Kim Jong Un pare abbia voluto incoraggiare lo sviluppo del settore immobiliare. Tale interesse rientra nel processo di apertura economica, che pur non nella direzione di una riforma sul modello cinese e vietnamita, sta prendendo piede a piccoli passi, anche se al termine del Congresso nessun vero cambiamento è stato annunciato. Ma è stato lanciato un piano quinquennale che potrebbe presupporre mobilitazioni di massa per sostenere la crescita economica del regime.
Il comparto delle costruzioni è diventato uno dei motori di crescita della Corea del Nord negli ultimi anni. Fermi restando i valori assoluti, che indicano un paese in difficoltà, nel 2014 il prodotto interno lordo nordcoreano, secondo i dati della Bank of Korea, la banca centrale del Sud, è cresciuto dell’1 per cento, in leggera flessione rispetto al +1,1 per cento fatto registrare nel 2013. Dalla contrazione del 2010 si è passati a quattro anni di crescita; modesta, ma pur sempre di crescita. In questo contesto le costruzioni sono cresciute dell’1,4 per cento, in ripresa dal declino dell’anno precedente, sfruttando soprattutto la realizzazione di impianti e strade.
L’importanza data al comparto emerge anche dalla sorprendente copertura data dalla stampa ufficiale al crollo di una palazzina in costruzione a marzo del 2014, nel quale si ritiene siano morte decine di persone. Gli articoli indicavano precise responsabilità per il disastro, evento più unico che raro quando queste rischiano di ricadere sul governo.
All’epoca, gli esperti di Choson Exchange, organizzazione non governativa singaporiana specializzata nella formazione imprenditoriale in Corea del Nord, lessero la reazione della stampa come un tentativo del regime di mostrarsi pronto a prendersi le proprie responsabilità, presentandosi comunque fautore del progresso economico del Paese, che nelle intenzioni di Kim deve correre di pari passo con il rafforzamento delle proprie capacità militari e del deterrente nucleare.
Lo sviluppo urbano nordcoreano, sottolineano quelli di Choson Exchange in un’analisi più recente, si muove lungo quattro direttrici. La prima è il cambiamento stesso nelle costruzioni: ai blocchi di palazzine basse tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, si è passati a complessi monumentali che svettano verso l’alto. La seconda considerazione da fare è proprio il ruolo delle entità non statali coinvolte nei progetti di sviluppo residenziale: se dovessero arrivare norme che favoriscono gli investimenti esteri nell’immobiliare, si arriverebbe alla sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo e di finanziamento.
Un fattore che va letto assieme all’autonomia di pianificazione concessa ai diversi quartieri, in accordo con le linee guida statali. L’ultima direttrice è la collaborazione e i consorzi che possono mettere assieme esperti di design, ingegneri e costruttori e dar vita a entità capaci diversificare l’ambiente urbano. Prima di tutto nella capitale.
[Scritto per Missioni Consolata]