Il modello della Cina «fabbrica del mondo» ha emancipato 800 milioni di persone dalla povertà e fatto nascere il ceto medio cinese. Oggi quel sistema non funziona più: inquinamento, sovrapproduzione, bolle speculative, disparità sociali. «Meno quantità, più qualità», si dice, e la questione è anche politica. Il ciclo perverso dell’economia cinese è reso perfettamente da Behemoth, il documentario del regista cinese Zhao Liang (2015) ispirato alla Divina Commedia.
Inferno, Purgatorio, Paradiso, in questo caso sono la miniera di carbone, la fornace dell’acciaieria, la città fantasma.
La miniera produce il combustibile fossile in uno scenario davvero dantesco, in cui la natura devastata, rinsecchita, annerita come in un vero e proprio girone infernale, combacia con l’erosione della salute fisica dei minatori. Sono agghiaccianti, per esempio, le immagini del liquido nerastro drenato dai polmoni dei lavoratori – che vanno a fare visite di controllo in ospedale – e raccolto in ampolle. Una fila di camion carichi di carbone prende poi la strada dell’acciaieria, il gigantesco impianto dove uomini perennemente sudati producono, producono, producono milioni di tonnellate di metallo che in qualche modo deve poi essere impiegato. Ed ecco l’uscita «a riveder le stelle», o meglio il cielo azzurro della città di Ordos, Mongolia Interna – cioè quella cinese – l’Empireo finalmente. Peccato che Ordos sia sinonimo di sicheng, termine che traduciamo come «città fantasma», ma che in cinese suona più come «città morta». Tutto quell’acciaio (e quel cemento) che arrivano dalle imprese inquinanti della regione autonoma si traducono in file e file di nuovissimi palazzi alti venti-trenta piani e raccolti in compound perimetrati, ma drammaticamente vuoti, qualcuno con l’intonaco che già si sgretola.
Questa parabola così chiara ci trasmette immediatamente l’idea di come l’inquinamento, in Cina, sia legato indissolubilmente ad almeno altri tre problemi: il lavoro, cioè i minatori, gli operai dell’acciaieria, i muratori della città; l’eccesso di offerta industriale, cioè quegli 800 milioni – un miliardo di tonnellate di acciaio che ogni anno la Cina produce, metà del quantitativo globale; l’urbanizzazione, cioè la città. Detto altrimenti: non si può parlare di ambiente se non si parla anche di economia, lavoro, società e, last but not least, politica.
Il modello economico lanciato da Deng Xiaoping a fine anni Settanta non regge più.
Si basava su un alto tasso di investimenti – prima stranieri, poi anche cinesi – che hanno permesso di creare fabbriche, delocalizzare impianti, aprire succursali. In definitiva, di trasferire in Cina la «fabbrica del mondo». L’industrializzazione degli ultimi trent’anni si è concentrata soprattutto sul delta del Fiume delle Perle, cioè a Shenzhen, prima «zona economica speciale», attraente dal punto di vista delle agevolazioni fiscali, nonché del basso costo del lavoro e dei terreni. L’intera provincia del Guangdong è diventata, da allora, un enorme conglomerato industriale, che oltre a Shenzhen ha inglobato Dongguan, poco più nord, Guangzhou, la vecchia Canton, Foshan, Zhuhai, Zhongshan. Oggi, è la provincia più ricca della Cina.
Il nuovo modello si innestava sulla vecchia industrializzazione, quella di tipo sovietico risalente agli anni Cinquanta-Sessanta, che aveva invece come epicentro la «cintura della ruggine» del nord della Cina. Erano, queste, le vecchie industrie pesanti di Stato che subirono una prima ristrutturazione tra il 1998 e il 2003. Un bagno di sangue che portò al licenziamento di 28 milioni di lavoratori, con costi a carico dello Stato di circa 73 miliardi di yuan (quasi 10 miliardi di euro al cambio odierno) in fondi di ricollocamento.
Il binomio costituito da piccole industrie private o semiprivate a capitale misto e grandi industrie di Stato ha comunque trainato la Cina, emancipato 800 milioni di persone dalla povertà e prodotto il ceto medio cinese, che a sua volta ha preso a spendere per quell’accoppiata «casa-macchina» che connota tutta la piccola borghesia planetaria.
Nel frattempo, i contadini espropriati dai terreni adibiti a uso industriale o residenziale si riversavano nelle maggiori metropoli a caccia di opportunità e di lavoro. Sono stati loro la carne umana divorata dalla macchina del progresso perché un sistema tipicamente cinese che legava diritti e servizi minimi al luogo di residenza – chiamato hukou – li esponeva allo sfruttamento e ne abbatteva il potere contrattuale se lontani da casa.
Oggi, è necessaria un’altra ristrutturazione perché le imprese di Stato sono sempre tante – circa 150mila – e di solito corrispondono più a criteri politico/affaristici – l’arricchimento delle consorterie che si annidano al loro interno e la stabilità sociale garantita dal fatto che danno lavoro – che di efficienza. Il fenomeno è quello delle «imprese zombie», tenute in vita per ragioni di opportunità ma irragionevoli da un punto di vita economico. Zombie che continuano a inquinare.
Allo stesso tempo, Pechino deve fare i conti con un’altra emergenza. La crisi globale del 2008-09 ha ridotto i volumi dell’export cinese verso l’Occidente, mandando in crisi le piccole-medie imprese del «virtuoso» delta del Fiume delle Perle. La filiera tessile, per esempio, ma anche l’elettronica di consumo, i giocattoli.
Infine, per garantirsi una sicurezza sociale in assenza di welfare compiuto – pensioni e sanità universali sono un lavoro in corso – i cinesi di solito investono nel mattone. Questo ha prodotto un fenomeno speculativo che secondo parecchi osservatori è ormai una bolla immobiliare pronta a scoppiare. Costruire corrisponde in realtà a tre esigenze: crea ricchezze immediate per palazzinari e investitori; permette di bruciare risorse in eccesso, come nel caso dell’acciaieria di Behemoth; offre occupazione. Ma sul lungo periodo, porta all’estremo i difetti del modello cinese: inquinamento, investimenti che non restituiscono profitti, bolle speculative.
La crisi/riconversione di fine anni Novanta fu l’occasione per fare anche esperienza di crisis management. Il potere del Partito comunista si basa sulla promessa di una Xiaokang Shehui, «società del benessere moderato». Oggi, le autorità cinesi si affrettano a precisare che la transizione del Paese verso un diverso modello economico non porteranno agli stessi licenziamenti di massa che hanno avuto luogo negli anni Novanta, bensì all’esubero di «soli» 5-6 milioni di lavoratori, che verranno debitamente ricollocati.
Insomma, per liberarsi dal circolo vizioso fatto di inquinamento, sovrapproduzione (o oversupply, eccesso di offerta), bolla immobiliare e investimenti che non tornano indietro, la leadership cinese cerca di muovere verso un diverso modello economico, ma al tempo stesso vuole farlo in maniera non traumatica, per non destabilizzare il sistema e mantenere la promessa di arricchimento.
La Cina punta quindi a diventare «economia evoluta» rivedendo il proprio ruolo di fabbrica del mondo. Meno quantità, più qualità; meno carabattole, più produzioni ad alto valore aggiunto; meno lavoratori migranti, più giovani istruiti, tecnologizzati, cosmopoliti. Così, le ricchezze accumulate in trent’anni di boom sono spese per incentivare i giovani a fondare start-up, per creare parchi tecnologici, per finanziare la ricerca. Tra il 2014 e il 2015, l’investimento delle imprese cinesi in ricerca&sviluppo è aumentato del 46 per cento, contro numeri a cifra singola per l’Europa e gli Stati Uniti. Le esenzioni fiscali e i ponti d’oro non sono più fatti alle industrie straniere tradizionali, bensì sempre più a quelle che trasferiscono tecnologia, know how: biotecnologie, settore farmaceutico, elettronica avanzata, prodotti finanziari. Idem per le acquisizioni all’estero.
Il tredicesimo piano quinquennale 2016-2020 ha proprio annunciato queste trasformazioni, ma le riforme è più facile annunciarle che farle, perché il potere cinese è sempre combattuto tra la necessità di accelerare e quella di rallentare, per non creare terremoti sociali.
Nei mesi scorsi si sono moltiplicati i conflitti sul lavoro di comunità operaie del nord-est cinese di fronte all’annunciata chiusura di miniere e impianti. Nella provincia dell’Heilongjiang, la proprietà della miniera di Shuangyashan ha per esempio annunciato il licenziamento di 100mila lavoratori nei prossimi due o tre anni, sui 224mila totali. Il gruppo Longmay, proprietario del giacimento, è controllato dal governo provinciale ed è in perdita dal 2012, per rimanere a galla chiede nuove linee di credito alle banche.
Il problema inquinamento si trova dunque al centro del tira e molla tra chi spinge e chi fa resistenza.
L’ultima manifestazione di questa tensione sembrerebbe essere il conflitto latente tra il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang, il numero uno e il numero due del potere cinese. Recenti studi hanno infatti rivelato che i continui piccoli stimoli economici permessi dalla gestione di Li Keqiang – in sostanza, crediti – avrebbero permesso a parecchie industrie pesanti «zombie» e inquinanti destinate alla chiusura non solo di stare a galla, ma anche di annunciare piani di espansione.
A questo punto, Xi Jinping avrebbe parzialmente esautorato il premier e preso in prima persona il controllo dell’economia. Alcuni recenti articoli dei media di Stato sottolineano il ruolo sempre più marcato del presidente nel dettare l’agenda economica, che di solito è invece appannaggio del premier. Xi ha in programma di accelerare le riforme e di imporre chiusure e fusioni di imprese nel settore dell’acciaio, del carbone e del cemento con enorme eccesso di capacità. Nella Cina dei paradossi, la soluzione al problema dell’inquinamento passerebbe così anche attraverso l’ulteriore accentramento del potere da parte di un presidente già accusato di essere un Mao Zedong redivivo.
[Scritto per Missioni Consolata. Foto: Ordos, Mongolia Interna]