«Non vi è alcuna base giuridica con cui la Cina possa rivendicare diritti storici sulle risorse all’interno della zona di mare che rientra nella “linea dei nove tratti”». La Corte permanente di arbitrato dell’Aja ha respinto le rivendicazioni territoriali cinesi sul Mar Cinese Meridionale, sostenendo che non esiste alcuna prova che la Cina abbia storicamente esercitato un controllo esclusivo su quelle acque. È la sentenza prevista da giorni ma già respinta da Pechino che la definisce «infondata». Il tribunale dell’Aia sostiene anche che la Cina abbia violato i diritti sovrani delle Filippine. Sostiene infine che abbia causato «gravi danni all’ambiente della barriera corallina» attraverso la costruzione di isole artificiali.
Le Filippine nel 2013 avevano sollevato il caso presso la Corte di Arbitrato dell’Aja impugnando la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Manila chiedeva alla corte di esprimersi sulle rivendicazioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e sulla cosiddetta «linea dei nove tratti», cioè la rivendicazione delle proprie acque territoriali da parte della Cina in base a una linea che oltre a comprendere arcipelaghi contesi come quelli delle Spratly e delle Parcelse, arriva a lambire le coste degli altri Paesi che si affacciano su quel mare. Manila sosteneva che siccome gran parte degli isolotti compresi da Pechino non sono in grado di sostenere la vita umana, in base alla Convenzione Onu non sono quindi da considerarsi un prolungamento della piattaforma continentale cinese.
La Corte di Arbitrato dell’Aja – ricordiamolo – non è la Corte Internazionale di Giustizia che sta sempre all’Aja. È un’organizzazione di tribunali nazionali che si mettono insieme per dirimere controversie internazionali. Anche la Cina aderisce a questa organizzazione, ma nel 2014 ha rifiutato la giurisdizione della corte sostenendo che non abbia competenza sui casi che riguardano la sovranità, eccezione sollevata in passato anche da altri Paesi. E per la Cina il Mar Cinese Meridionale è questione di sovranità, perché per ragioni cosiddette «storiche», Pechino si rifà a mappe più o meno antiche per dire che isolotti, atolli e perfino secche sono cinesi, perché avevano nomi cinesi. Anche qui la questione è estremamente controversa, sarà sufficiente dire che anche le mappe danno risposte non univoche e soprattutto non sarebbero impugnabili come prova giuridica.
Secondo un parere diffuso, la corte quindi ha giurisdizione sul caso, ma non ha poteri per imporre le proprie decisioni. Quindi si torna alle pressioni politiche: gli Stati Uniti sostengono da tempo che la Cina debba rispettare le decisioni della corte, Pechino continua a negarne la giurisdizione, Washington che manda le sue navi a scorrazzare vicino agli isolotti controllati dai cinesi che, per tutta risposta, organizzano esercitazioni navali proprio in questi giorni.
In realtà la Cina non vuole l’intromissione statunitense in quell’area, che giudica il proprio cortile di casa, non vuole neanche che organizzazioni internazionali si esprimano sull’argomento e vuole dirimere le questioni bilateralmente con gli altri interessati. Che però, presi individualmente, non hanno la forza della Cina. A questo punto si pensa che Pechino debba valutare se sia peggiore la perdita di faccia data dal non rispettare la sentenza della corte oppure la rinuncia alle proprie rivendicazioni. Attendiamo le future mosse della Cina.