Cade il silenzio tra le due sponde dello Stretto. Pechino ha sospeso i contatti con l’agenzia taiwanese responsabile di mantenere la comunicazione con la mainland. A provocare lo strappo, il mancato riconoscimento da parte di Taipei del «principio di una sola Cina». In realtà, da quando la nuova presidente filo-indipendentista Tsai Ing-wen ha assunto il potere, il governo cinese non ha mancato occasione per esternare la propria disapprovazione nei confronti della leadership del Democratic Progressive Party.
Secondo quanto affermato sabato dal portavoce del Taiwan Affairs Office (TAO), An Fengshan, «la comunicazione tra le due sponde dello Stretto è stata sospesa a causa del mancato riconoscimento da parte di Taiwan del consenso 1992», il principio che stabilisce l’esistenza di «una sola Cina» senza ben chiarire, tuttavia, se essa sia quella rappresentata dalla mainland o quella che oggi corrisponde all’ex Formosa.
L’ultimo utilizzo dei meccanismi di comunicazione tra le due parti risale a venerdì quando il Mainland Affairs Council (MAC) aveva contattato il Taiwan Affairs Office per esprimere le proprie preoccupazioni riguardo alla deportazione dalla Cambogia in Cina di 25 taiwanesi sospettati di essere implicati in una serie di frodi telefoniche e online che Pechino stima siano costate ai cittadini cinesi milioni di yuan; ultima tranche di una lunga sequela di «rimpatri» forzati da Paesi amici di Pechino – come Kenya e Malaysia – che Taipei definisce «rapimenti».
Ad ogni modo, stando alle dichiarazioni del TAO, i contatti tra le agenzie amministrative risultavano interrotti da maggio, ovvero da quando la leader del partito indipendentista Democratic Progressiv Party (DPP) Tsai Ing-wen si è insediata alla presidenza dell’isola democratica con un discorso inaugurale che Pechino ha definito «incompleto»: Tsai si è detta favorevole al mantenimento dello status quo bypassando volutamente un riferimento esplicito al «consenso del 1992», condicio sine qua non il normale svolgimento dei rapporti attraverso lo Stretto risulta inaccettabile, fanno sapere dalla mainland, dove Taiwan viene ancora considerata una «provincia ribelle» da riannettere.
Malgrado i progressi registrati dalle relazioni bilaterali negli ultimi tempi, culminati nello storico incontro al vertice tra Xi Jinping e l’ex presidente taiwanese Ma Ying-jeou, il ritorno al potere del DPP riapre un periodo di incertezze per le due Cine, dopo anni di gestione filocinese sotto l’egida nazionalista del Guomindang. Difficile ipotizzare l’adozione di una linea dura proprio ora che la nuova leadership taiwanese si trova a dover gestire con urgenza una spinosa congiuntura economica sulla quale l’incombente vicino incide drasticamente (nel bene e nel male), contando per il 40 per cento dell’export dell’isola. Proprio in questi giorni Taipei si trova a dover domare il primo sciopero della storia da parte di una compagnia aerea locale, con i dipendenti della China Airline che negli scorsi giorni hanno incrociato le braccia per ottenere maggiori indennità e migliori condizioni di lavoro.
Questo non sembra tuttavia implicare una resa di Taipei alle richieste del gigante asiatico. Dopo aver consolidato la sua posizione nell’esercito visitando due basi militari nella contea di Hualien lo scorso maggio, domenica la Tsai ha fatto la sua prima apparizione pubblica oltremare per presenziare alla cerimonia organizzata per celebrare il «raddoppio» del canale di Panama, uno dei pochi Paesi a riconoscere ancora la statualità di Taiwan, ma che -si mormora- potrebbe in futuro scaricare Taipei per stringere più stretti rapporti con la Repubblica popolare. Un’ipotesi avvalorata dal simbolico battesimo della portacontainer cinese Cosco Shipping Panama, prima imbarcazione ad aver attraversato l’istmo delle Americhe dalla conclusione dei lavori di ampliamento avviati otto anni fa. Ecco che nonostante la pesante assenza di Xi Jinping – il capo di Stato cinese aveva respinto l’invito delle autorità panamensi denunciando l’ambiguità mantenuta da Taipei sul principio «una sola Cina» – anche da lontano Pechino sa bene come rivendicare il proprio ruolo di «convitato di pietra». L’arte della persuasione diventa superflua quando si hanno un portafoglio bello gonfio e ghiotti progetti infrastrutturali in cantiere.
Sebbene finalizzata a cementare la posizione della Repubblica di Cina (ROC) sullo scacchiere internazionale, la trasferta americana di Tsai – che proseguirà in Paraguay e comprende scali a Miami e Los Angeles – per il momento si è svolta all’insegna del basso profilo. Anche troppo secondo i colleghi del Guomindang, indispettiti dal fatto che la leader abbia preferito utilizzare il nome informale di Taiwan anziché quello più ufficiale di ROC, verosimilmente per non infastidire i compagni del continente.
Negli ultimi mesi il Dragone ha giocato di sponda, prima pressando le nazioni alleate per una consegna dei «truffatori» taiwanesi, poi centellinando il numero dei turisti cinesi oltre lo Stretto. In tutta risposta, per disinnescare la tensione Tsai si è trovata costretta ad arricchire il proprio entourage di «veterani» con forti legami nel Guomindang, deludendo le aspettative di quanti si attendevano un governo più giovane, sulla scia dell’attivismo nato dalle proteste studentesche dei Girasoli contro il famigerato trattato commerciale sui servizi. Ultimamente sono girate voci su una possibile ripresa dei dialoghi per rinegoziare i 23 accordi siglati dalle due parti negli ultimi otto anni, nel caso si dovessero rivelare inaccettabili alle condizioni attuali. Un’eventualità che, tuttavia, smentirebbe le promesse della leader del DPP di mantenere invariati i termini delle intese precedentemente sottoscritte. Il che se da una parte accontenterebbe le neonate forze politiche, dall’altra finirebbe per irritare ulteriormente Pechino.