Mentre il Vecchio Continente marcia in ordine sparso nelle relazioni con la Cina, Pechino ha una strategia coerente e molto flessibile, fatta di relazioni ai vertici e «public diplomacy». Improbabile che la Brexit provochi eccessivi scossoni e tragedie, ci sarà solo da aggiustare qualcosa. Fen jiu bi he, he jiu bi fen è l’incipit del Romanzo dei Tre Regni, uno dei quattro classici della letteratura cinese: «Il mondo sotto il cielo, dopo un lungo periodo di divisione, tende ad unirsi; dopo un lungo periodo di unione, tende a dividersi. Così è stato fin dall’antichità», scrive il presunto autore Luo Guanzhong – detto il «Shakespeare cinese» – per descrivere turbolenze, conflitti, intrighi e maneggi che determineranno la fine della dinastia Han.
Oggi, qualche cinese ha rispolverato il detto, che per estensione significa «tutto cambia costantemente», nel tentativo di descrivere una cosa incomprensibile ai più: la scelta del 52 per cento dei britannici aventi diritto al voto, al netto degli astenuti, di tagliare i ponti con l’Unione Europea.
Quando poi si è diffusa la voce che sarebbero stati i sudditi di Sua Maestà più anziani a tirare su il muro a Calais via scheda elettorale – vero, ma i giovani semplicemente non sono andati a votare – quei cinesi che provano un qualche interesse per le vicende politiche europee sono giunti in genere a una conclusione che curiosamente coincide con quella dell’europeo «liberal ed evoluto» (o «extra-europeo liberal ed evoluto», nel caso dei britannici): «I vecchi hanno imposto le proprie paure e negato un futuro ai giovani, questa “democrazia” proprio non funziona». Solo che questo, in Cina, lo teorizzano da tempo anche gli intellettuali neoconfuciani, è quasi dottrina di Stato: la liberaldemocrazia elettorale che arriva da Occidente è una bufala, intercetta solo le pulsioni del momento e non trae insegnamento dal passato; ma soprattutto, rischia di imporre opzioni pesanti come incudini sulla testa delle future generazioni.
Così, come ipotesi di modello politico, si predilige l’idea di un regime «meritocratico» con accesso ai vertici dello Stato via cooptazione (tipo una tecnocrazia), democrazia «controllata» alla base dei villaggi (tutti eleggibili ma meglio se iscritti al Partito), varie ed eventuali in mezzo. Che poi gli alti papaveri al potere siano ben felici di impugnare tale ipotesi per garantire le proprie poltrone è fatto del tutto casuale.
Ma torniamo alla Brexit: come l’ha presa la Cina che governa? Stante il principio di non ingerenza nelle vicende altrui, nei giorni precedenti al referendum, i media di Stato avevano comunque più volte ripetuto le proprie perplessità. Pechino è in attesa del riconoscimento da parte dell’Europa dello status di «economia di mercato» (Mes), qualcosa a cui tiene molto. Negli scorsi mesi, all’interno della Ue si era costituito un fronte anti-Cina guidato dall’Italia e dagli altri Paesi latini, controbilanciato proprio dal Regno Unito e, forse dalla Germania. Ora, l’opinione britannica varrà come il due di briscola e il fronte del «no» al Mes si rafforza.
C’è poi la «golden decade», cioè il fatto che lo scorso anno, durante la sua visita in Gran Bretagna, Xi Jinping aveva sancito con Cameron l’avvio di un decennio di rapporti privilegiati tra Pechino e Londra. Chiara era la strategia cinese: usare il Regno Unito come porta verso l’Europa, per poi accedere ai benefici del mercato comune. Ora, la porta si chiude. Ma su questo punto esiste una diversa valutazione: la City perde significato come hub finanziario europeo per l’internazionalizzazione dello yuan? Che problema c’è, si va a Francoforte. E intanto si incassano i benefici di una Londra con il piattino della questua nei rapporti bilaterali.
Ecco, proprio questa ambivalenza nei confronti dell’Europa unita, questo sguardo distante ma al tempo stesso interessatissimo alle vicende che ci riguardano, nasconde in realtà una strategia assertiva, sia coerente sia in evoluzione, adattativa, pragmatica; sia diplomazia ufficiale sia public diplomacy, è il metodo con cui Pechino cerca di cogliere il meglio dalle circostanze che si verificano.
A ottobre 2015, un consorzio di think-tank europei di recente formazione – European Think.tank network on China – ha pubblicato un rapporto che fa il punto proprio su questo tema: Mapping Europe-China Relations. A Bottom-Up approach [scaricabile gratuitamente qui].
Secondo lo studio, la Cina non ha interesse a un’Europa debole perché teorizza un mondo tripolare composto da se stessa, gli Stati Uniti e proprio la Ue. Non fa quindi nulla per dividere l’Europa, semplicemente si adatta a un’Europa che si disunisce già da sé, e applica uno schema consolidato. Alice Ekman, una delle autrici del rapporto, ci ha spiegato meglio questo «pattern».
Primo. Nello stile diplomatico, la Cina sottolinea sempre la «comprehensive strategic partnership» che ha con la maggior parte dei Paesi europei, anche se questa formula, di per sé, non vuol dire nulla. Con ogni Paese «partner», Pechino enfatizza per esempio anniversari come quello delle relazioni bilaterali; ma poi, di volta in volta, sbandiera «specifici legami storico-culturali» con molta disinvoltura. Così, se con i Paesi dell’Europa centro-orientale si tende sempre a ricordare un comune passato di sofferenze sotto la dominazione straniera, con altri – come Uk, Spagna e Portogallo – si sottolinea invece una medesima matrice imperiale, fatta di grande storia e di civiltà millenaria. Del resto, la Cina è sia una cosa sia l’altra.
Al contempo, su un piano più sostanziale, si cerca la complementarietà tra le rispettive strategie di sviluppo.
Secondo. Per la Cina, esiste una gerarchia tra i Paesi europei e la «strategic partnership» viene così tradotta in modo diverso. In pole-position ci sono Germania, Francia e Regno Unito (quest’ultimo, almeno, fino alla Brexit). Dopo di che, la Cina cerca di creare propri network regionali di riferimento. Nel 2012, è stato creato il gruppo dei «16+1» con i Paesi dell’Europa centro-orientale, primo esempio di tale strategia, finora senza seguito altrove. Nella visione cinese, sono loro l’approdo della nuova Via della Seta. Esistono però politiche specifiche per il blocco dei Paesi nordici – «porta d’ingresso» all’Artico – e per l’Europa meridionale (senza la Francia), potenziale secondo punto d’arrivo per la «One Belt One Road».
Terzo. Le relazioni con un Paese europeo sono viste da Pechino come piattaforma diplomatica per altre parti di mondo. Così, si spera che le relazioni con la Francia facilitino anche i rapporti con l’Africa francofona, quelle con la Spagna contribuiscano all’ingresso in America Latina e il Portogallo apra la porta del Brasile. Non che la Cina non abbia una strategia indipendente verso queste parti di mondo, ma i Paesi europei dal passato coloniale sono intesi anche come «porte d’ingresso» verso ulteriori approdi.
Quarto. Esiste una public diplomacy che si affianca a quella ufficiale. Si compone di cooperazione economica tra singole città o regioni cinesi ed europee, di grandi investimenti, di lobbying, di offensiva mediatica. Con questa «diplomazia del quotidiano», la Cina impone nelle relazioni con i singoli Stati le cosiddette «3k»: key priorities, key concepts, keywords. «Sogno cinese», «One belt one road» e così via monopolizzano il discorso diplomatico, consentono alla Cina di impostare le relazioni secondo i propri termini.
Prendiamo la Via della Seta. La Cina la sbandiera di continuo, ma a oggi si sono visti pochi progetti concreti, per esempio il famoso corridoio ferroviario tra Ungheria e Serbia è ancora allo stato di progetto. Ecco però che le associazioni di industriali europei fanno pressione sui propri governi per entrare nella grande evocazione simbolica e il solo fatto che se ne parli prepara il terreno per gli scambi economici. In questo gioco, entrano anche singole amministrazioni, a prescindere dai propri governi: per attirare gli investimenti cinesi, Lione si è proclamata per esempio «città sulla Via della Seta», il che è piuttosto bizzarro.
Il massiccio investimento cinese verso l’Europa è poi funzionale anche alla competizione con gli Usa, perché Pechino sa benissimo che non tutti i governi europei sono allineati con Washington.
In buona sostanza, la diplomazia cinese ama la prevedibilità e lo scossone Brexit andrà digerito. Ma se si considera la flessibilità di questo schema, è impensabile che a Pechino si pianga troppo per i destini di Londra.
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