Note sparse sulla mostra «Post-intellectualism» allo Springs Center for Art della 798 di Pechino: Ai Wei Wei, Qiu Zhijie, Xu Bing e Zhan Wang, in un’operazione forzata, disonesta intellettualmente e ridondante. Sarebbe stato meglio organizzare un cocktail party in uno dei club più invisibili ed esclusivi della città. Ho ancora fiducia nell’arte contemporanea e nella sua capacità di cambiare, di negarsi, di contorcersi, di provocare e infastidire, di sfuggire alle definizioni e di camminare in bilico sulla fune sottile sul baratro tra la genialità e l’impostura.
In una società in cui il ritorno dei regimi, del razzismo e della xenofobia è parallelo alla messa in pratica effettiva delle follie tecnocratico-scientifiche predette dal quartetto Huxley, Bradbury, Orwell, Dick, voglio pensare che l’artista contemporaneo sia ancora un’anomalia, un’ ingiustificata presenza che può ancora creare scompiglio: le fou du roi, il trickster, ciò che non si può «recuperare» mai fino in fondo.
Perché un artista può essere rivoluzionario o conservatore, perverso o innocente, sublime o triviale, cinico o sentimentale, preciso e maniacale, intuitivo e spontaneo, basta che non sia banale o conformista.
Lo stesso vale per i curatori, che dovrebbero essere sofisticati alchimisti di estetiche cangianti e contenuti mutevoli; e per le mostre stesse, che potrebbero essere eventi impossibili da spiegare in cui si ritorna più volte per esorcizzare – senza riuscirci – lo strano incantesimo con cui queste «cose» – immagini, suoni e azioni – sistemate in un certo modo nello spazio, ci hanno stregato.
Ma oggi sempre più spesso (scrivo da complice e parte del sistema), gli artisti e i curatori sembrano dei funzionari stanchi, annoiati e/o spaventati che si ripetono a vuoto in una «simulazione» declinata all’infinito di paradigmi già esistenti, perché devono farlo comunque anche se si sono scordati perché.
Il critico e teorista contemporaneo Boris Groys afferma che ormai l’arte non produce che «informazione sull’arte» mentre l’artista e il curatore sono intenti semplicemente a costruire la propria immagine mediatica nella rappresentazione collettiva, sfidandosi nei rapporti di forza della società dello spettacolo.
A questo proposito, oggi, per giocare a un gioco, vorrei citare un esempio pechinese corrente di come, a mio avviso, non si dovrebbe fare una mostra, non si dovrebbero scegliere gli artisti e le opere e non si dovrebbe allestire uno spazio.
È abbastanza originale il fatto che un evento artistico riesca a mettere assieme in uno dei modi meno interessanti possibili tutti questi elementi.
La mostra “Post-Intellectualism” nel nuovo Spring Center of Art nel quartiere 798 aperta dal 30 Aprile al 26 Giugno corrente, riesce in maniera sconcertante a riunire alcuni dei cliché più temibili e rivela come le cose non andrebbero fatte.
In questo nuovo immenso ed imponente spazio espositivo, il curatore Han Jiyun ha riunito 4 pezzi grossi dell’arte cinese contemporanea (se non proprio i 4 pezzi più grossi: Ai Wei Wei, Qiu Zhijie, Xu Bing e Zhan Wang), e alcune delle loro opere attorno ad un tema, in apparenza critico, ma di per sé privo di senso.
Non sapendo da che parte prendere la mostra, ma essendo comunque rimasto impressionato, l’unico angolo che riesco a trovare per indirizzarla è chiedere un sacco di perché.
Perché quando si decide e si ha la possibilità di aprire un nuovo spazio d’arte contemporanea, lo si fa occupando per forza uno luogo immenso, intimidatorio e altisonante? Solo perché si può?
Perché si sceglie di esporre artisti super stars, come i 4 in questione, ma anziché lavorare a lungo e intelligentemente per trovare delle nuove o lontane convergenze e delle similitudini sottili ed interessanti, magari presentando opere inedite o trascurate o meno note, si espongono invece opere che sono già state viste e riviste in altri contesti, in cui avevano però un vero valore specifico e un contesto storico, mentre qui non hanno quasi nessuna ragione di essere assieme se non quella di essere opere famose e già viste di artisti famosi e già visti?
Perché si opta per un titolo che si vorrebbe provocatorio, accademico e tranciante, ma lascia capire da sé che in realtà è solo un tentativo maldestro, vuoto e scelto in fretta per dare un senso a tutta l’operazione?
E per finire, perché artisti di grande valore e fama, con niente o poco da provare, si prestano a questo tipo di operazioni così intimamente fasulle e inutili, da cui non possono trarre alcun beneficio «artistico»?
Non esistono altri modi meno «loud» e banali di fare favori agli amici?
E se non è proprio possibile sottrarsi ad una logica di favori, perché allora non fare qualcosa di interessante, ricercato e di qualità quando si hanno così tanti mezzi a disposizione?
Forse non per tutti, ma di sicuro per alcuni con occhi almeno un po’ esperti e soprattutto con anime un po’ sensibili, si forma un buco nello stomaco, che diventa un misto di rabbia e tristezza e – perché no – anche di dolore, nel vedere uno spazio utilizzato in maniera superficiale e alcune opere «forzate» a stare assieme, come i nomi dei loro esecutori, quando invece di rinforzarsi e sostenersi non fanno che banalizzarsi e spegnersi riflettendo non più la storia che hanno scritto, ma solo la propria immagine mediatica svuotata di ogni contenuto.
In questo senso forse il titolo «Post-intellectualism» è azzeccato, se partiamo dal presupposto che bypassare l’intellettualismo sia spegnere definitivamente il cervello.
E se l’intellettualismo eccessivo ha fatto molti danni, ciò non significa che sia necessario, anche nell’arte, optare per alternative trumpiane in cui superficialità e presunzione diventino i garanti di ogni sorta di vanitas inutili e costose.
Ma poi la rabbia passa e rimane solo la sensazione che sia un vero peccato che gli eleganti solidi di legno rosewood e i maestosi candelabri di cristallo di AiWeWei, le mappe ricercate e originali di Qiu Zhijie, le ambigue animazioni tra simboli e linguaggi di Xu Bing e le strane rocce d’acciaio di Zhan Wang siano prigioniere dello Springs Center for Art con, come mandato di cattura, la seguente press release (di cui alcuni passaggi sono omessi) che ognuno dovrebbe leggere per intuire quanto «oltre ogni intellettualismo» sia possibile spingersi nel presentare artisti il cui lavoro e la cui ricerca sono sempre e comunque stati prima di tutto, un’espressione di qualità intellettuale.
«Artists are including Ai Weiwei, Qiu Zhijie, Xu Bing and Zhan Wang and they will bring installation, video, sculptures and modern ink paintings in the exhibition.
Their art works highlight a mixture of Chinese and Western ideology […]. Chinese contemporary art has sincere humanistic spirit, it is not only because artists are influenced by long term history of Chinese philosophy and culture, but also have been learning various western ideologies […]. Chinese contemporary artist plays not just an artist role, but also creates a philosopher, an observer or being as a prophet in their art who formulates images of contemporary China.
Chinese contemporary artists choose various expressions which combine Chinese ideologies with Western aesthetics and philosophies to illustrate the picture of Chinese contemporary […].“Post-Intellectualism” refers four Chinese artists whose art works blend into Chinese and Western philosophies and aesthetics.
Four of them are based on Chinese ideologies and create their own concepts individually with Western or Chinese aesthetics. “Post-Intellectualism” will be held April 30 to June 26 at Springs Center of Art.»
Per terminare questo mio infelice rantolo, con lo spirito di prendere sul serio questo tipo di ricerca, vorrei proporre un approccio più radicale e mi permetto di suggerire che anziché nella mostra, il budget avrebbe potuto essere investito in una serata ad inviti in uno qualsiasi tra i night club più selettivi, nascosti e decadenti della città, dove sarebbe stato possibile fare l’esperienza diretta del post-intellettualismo in un connubio perfetto tra teoria e pratica.
FreeVantablack è la nuova rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito.
«Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.]
* Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.