Nel pieno della periferia romana, quasi a ridosso del Grande raccordo anulare, tra capannoni e pompe di benzina, sorge lo Hua Yi Si, il tempio buddhista cinese più grande di tutta l’Europa. Nel 2013, in una mostra all’Ex Cartiera Latina di Roma, comparve l’immagine di un caratteristico tempio cinese sperduto in una stradina della periferia romana. L’occasione era il Naked City Fest, «un distillato di immagini e narrazioni sulla capitale, un rito civile in cui l’informazione, il racconto dell’oggi, si faranno esperienza viva e condivisa», o almeno così riportavano i comunicati stampa. Il programma comprendeva una grande collettiva fotografica con l’intenzione di mostrare «la città nuda» e raccontare la Roma di oggi, e parte di questa narrazione era proprio la foto di una costruzione in stile tradizionale cinese, che dall’indirizzo sembrava stare all’estremo oriente (guarda il caso) della capitale. Per chi si occupa di Cina, ne studia la cultura e la lingua pur con la certezza che capire davvero la Cina è impossibile, l’esistenza stessa di una struttura del genere non poteva passare inosservata.
L’argomento si è ripresentato per caso qualche mese fa. L’occasione stavolta era un pranzo al termine di un incontro all’università la Sapienza per parlare di Cina e informazione – o meglio, del modo in cui la Repubblica Popolare viene raccontata e rappresentata dai giornali italiani. Nella saletta in un ristorantino dalle parti di piazza Vittorio, si chiacchiera del più e del meno tra giornalisti e sinologi. Vista l’ora e il luogo, si cerca quindi di tracciare una geografia dei ristoranti cinesi più autentici, quelli i cui sapori non siano stati troppo adatti al palato locale. E in mezzo a questi discorsi, ecco cadere la frase: «Sapete del tempio di via dell’Omo?» chiede un professore di lingua e letteratura cinese.
Quando si parla di comunità cinese a Roma la mente corre immediatamente al quartiere Esquilino, di cui piazza Vittorio è al tempo stesso fulcro e simbolo. Pieno centro cittadino, distante poche centinaia di metri dalla stazione Termini, è una delle aree più meticce della città: tra le vie intitolate ai protagonisti della politica italiana tra Ottocento e Novecento, pullulano negozi d’abbigliamento, market e ristoranti non solo cinesi ma anche bangladeshi, indiani e di altre nazionalità. Via dell’Omo però, non si trova da queste parti. A dirla tutta, da piazza Vittorio dista circa dieci chilometri: per raggiungerla bisogna andare verso est e percorrere la via Prenestina fino a lambire il Grande Raccordo Anulare e i cartelli con la scritta “Roma” sbarrata, lì dove si aprono i piazzali di magazzini e capannoni, pompe per la benzina e rivendite all’ingrosso, tra il viavai di camion e automobili.
Sui motori di ricerca, la voce «via dell’Omo» rimanda a risultati di servizio come «ingrosso cinese»; «negozi cinesi illuminazione» e «abbigliamento vendita al dettaglio». I link commerciali sono inframmezzati da articoli di cronaca locale: «blitz nei capannoni cinesi», «maxi operazione dei vigili». Di quest’ultimo filone fa parte anche «l’omertà nei capannoni all’ingrosso dove detta legge la ‘regola orientale’». Il pezzo è del quotidiano Il Tempo, e d’altra parte si tratta di una di quelle aree che di tanto in tanto diventano lo spauracchio di giornali e commentatori: «la zona è ormai cinese» è il refrain tra le righe, ma al massimo si raccolgono i racconti neppure troppo scandalizzati di qualche commerciante che ha ceduto capannoni e fabbricati ai nuovi arrivati.
È in mezzo a questo spaccato di zona industriale in piena periferia est che a un certo punto ci si trova davanti allo Hua Yi Si: letteralmente, il tempio buddhista italo-cinese. Il nome è in bella mostra nei tre caratteri dorati, scritti da tradizione in ordine contrario, che svettano sul portone d’ingresso. Accanto c’è un ingrosso di scarpe, poco distante un “Intimo italiano”, poi tutto attorno casalinghi, telefonini, elettrodomestici.
Lo Hua Yi Si è il tempio buddhista cinese più grande d’Europa. Subito dopo il primo portone, due leoni in bianco sono messi quasi a protezione della struttura. Un Budai grasso e sorridente, ossia un Bodhisattva Maitreya, il Buddha del futuro, accoglie il visitatore assieme all’odore di incenso. Alle spalle si vede l’altare principale sormontato da un altro Buddha, la cui figura è più longilinea, nello stile dell’arte del Gandhara.
Lontano dalle strade dei turisti, il tempio è con molta probabilità sconosciuto anche alla stragrande maggioranza dei romani. Nella mappatura religiosa della città riveste comunque un ruolo non secondario; è segnalato su Roma multietnica, la guida interculturale delle Biblioteche di Roma, e vanta anche recensioni su TripAdvisor, in generale tutte dal tono entusiasta e divise in due grandi categorie: quelle dei buddhisti, e quelle di quanti si sono ritrovati davanti allo Hua Yi Si per caso, mentre magari erano in zona per lavoro.
Inaugurato a marzo 2013, la cerimonia di consacrazione e purificazione fu affollata e vide la partecipazione dell’allora sindaco Gianni Alemanno, che trascorsi pochi mesi sarebbe stato scalzato al Campidoglio dal «marziano» Ignazio Marino. Restando dalle parti della politica, nelle scorse settimane la zona è stata una delle tappe della campagna elettorale di Marco Wong, ingegnere bolognese e presidente onorario di Associna (l’associazione delle seconde generazioni cinesi), candidato nelle liste in appoggio a Roberto Giacchetti nelle amministrative dello scorso 5 giugno. L’intento ufficiale era quello di valorizzare la presenza cinese nella capitale, una comunità che conta più di quindicimila persone residenti.
Lo Hua Yi Si è legato all’Unione buddhista italiana: dalla metà degli anni Ottanta l’organizzazione si propone di rappresentare gli interessi dei buddhisti in Italia, e a dicembre del 2012 è riuscita a siglare un’intesa con lo Stato italiano entrata in vigore il successivo 17 gennaio. L’architettura del tempio invece è ispirata alla struttura del monastero Chung Tai, epicentro della scuola taiwanese del buddhismo Chan, fondata nel 1987 dal venerabile maestro Wei Chueh. La struttura originaria nella città di Puli venne inaugurata nel 2001 e fu voluta per venire incontro al sempre maggior numero di praticanti decisi a seguire il monaco che si dice abbia rivitalizzato il Chan a Taiwan.
Il Chan è la via cinese al buddhismo, fondata secondo la tradizione dal monaco Bodhidharma, «arrivato dall’Occidente per diffondere la sua dottrina nel Regno di mezzo», come scrive Leonardo Arena nella sua storia dello «zen cinese». L’origine è nel buddhismo indiano diffuso in Cina nel primo secolo dopo Cristo, e poi mediato dal taoismo. Da allora, come ricorda la giornalista e sinologa Renata Pisu nel saggio Né dio né legge, il Chan «continuò a prosperare ed ebbe un’influenza decisiva sull’elaborazione neo-confuciana»: nonostante le ricorrenti persecuzioni da parte del potere cinese, la classe intellettuale e colta («aliena da pensieri sull’aldilà», sottolinea ancora la Pisu) non si scagliò contro questa particolare forma di buddhismo, una corrente votata alla vita interiore e alla convinzione che l’intuizione fosse la strada per raggiungere la saggezza e quindi l’illuminazione. «È difficile trovare qualcosa in Cina che non abbia ricevuto l’impronta buddhista» chiosa Pisu; «la buddhizazzione della Cina è un fatto innegabile, come lo è la cinesizzazione del buddhismo».
A sua volta il già citato Wei Chueh, nato in Sichuan nella Cina continentale e giusto recentemente scomparso, è considerato figura di spicco della recente scena taiwanese: un uomo rappresentato come ligio, retto e amante della vita semplice, un devoto che «ha contribuito a ripulire la società». Il personaggio comunque non è immune da critiche e controversie: lo scorso aprile, nel coccodrillo che ne tracciava il profilo dopo la morte a 88 anni, il Taipei Times ricordava il sostegno del maestro ai nazionalisti del Kuomintang; addirittura Wei Chueh non mancò di esprimersi a favore del presidente taiwanese Ma Ying-jeou quando questo corse per un secondo mandato alle elezioni del 2012. Sono comportamenti che stridono non poco con l’immagine del religioso lontano dalle faccende mondane, politica inclusa.
A Taiwan il monastero Chung Tai di Puli, le cui parti più alte raggiungono i 136 metri, è considerato una delle attrazioni della contea di Nantou, nella parte centrale dell’isola. È una struttura mastodontica e verrebbe quasi da dire poco zen, progettata tra l’altro da CY Lee, lo stesso architetto a cui si deve il Taipei 101, uno dei più alti grattacieli al mondo. Oltre che luogo di meditazione, il Chung Tai è anche un centro globale di ricerca accademica, arte, scienza e cultura: ossia le quattro direzioni a cui, secondo Wei, il buddhismo deve puntare assieme alla condotta privata.
Lo Hua Yi Si di Roma è da parte sua una specie di Chung Tai in piccolo. Il tempio è anche l’unico del suo genere nel Continente: gli altri centri affiliati al mondo spirituale di Wei Chueh sono infatti a Hong Kong, nelle Filippine, in Giappone, in Thailandia e negli Stati Uniti. Un po’ per timore delle cubature, un po’ per via della destinazione d’uso, la costruzione del tempo romano ha anche subito diversi intoppi: i lavori furono a un certo punto fermati dal Comune, ma essendo via dell’Omo una via non residenziale, periferica e basso impatto paesaggistico, sono stati sbloccati una volta terminati i controlli necessari.
I finanziamenti sono arrivati da donazioni della comunità romana, dalla Cina e da Taiwan. I nomi di alcuni dei praticanti-finanziatori sono conservati sulle pareti vicino a piccole statue. Di lato sulla destra, si trova un bancone sormontato da una foto del gran maestro Wei: qui una delle quattro monache che gestisce il complesso riceve chi entra. La prima volta che ho visitato lo Hua Yi Si erano in corso le pratiche religiose, e la sala di meditazione era piena: 100, forse 150 praticanti, per la maggioranza di origine cinese. I non cinesi però non mancano: una coppia di romani arrivata in ritardo parcheggia la moto lungo via dell’Omo, entra, saluta, si toglie le scarpe e corre nella Sala della meditazione – questa sì, copia identica di quella del complesso di Puli, con in fondo alla stanza tre statue e diverse file di sedili con cuscini gialli. Per quanto si può vedere, tutti riescono a seguire senza intoppi, nascosti in questo angolo sperduto di Roma, a pochi passi dall’uscita 16 del Grande Raccordo Anulare. Anche se sì, tutto si svolge in cinese, e questo qualche lamentela la provoca. Almeno a giudicare dalle recensioni su TripAdvisor.
[Scritto per The Towner; foto credit: photographictravelsinitaly.blogspot.com]