Nella giornata di mercoledì, Barack Obama e il Dalai Lama si sono incontrati privatamente alla Casa Bianca, quarta visita ufficiale del leader spirituale tibetano in esilio dal 1959 e considerato da Pechino un separatista. Il meeting si è tenuto alle 10:15 ora locale nella Map Room, una location meno prestigiosa rispetto allo Studio Ovale dove il presidente americano è solito accogliere gli alti dignitari stranieri. Tradotto dal diplomatichese: Obama riconosce la statura morale di Tenzin Gyatso, ma ne disconosce uno status politico, al quale d’altra parte il vecchio monaco ha rinunciato formalmente nel 2011, passando la patata bollente nelle mani di un leader «eletto democraticamente». E non è un mistero che il governo cinese stia puntando una fiche su un progressivo indebolimento del movimento tibetano, una volta che Sua Santità sarà passato a miglior vita.
Il faccia a faccia, un fuori programma, è stato reso possibile – con la complicità del massacro di Orlando – dalla cancellazione del viaggio di Obama in Wisconsin per la prima uscita elettorale insieme a Hillary Clinton. In un’intervista alla Reuters il Dalai Lama ha definito l’inquilino della Casa Bianca un «amico di vecchia data», stimabile per il coraggio con cui ha ricordato le vittime di Hiroshima recandosi di persona sul luogo della strage e per il ruolo rivestito nel processo di distensione con paesi un tempo ostili come Cuba, Iran e Vietnam.
L’ultimo incontro privato tra il leader tibetano e quello statunitense risale al febbraio 2014, ma lo scorso anno avevano presenziato entrambi alla National Prayer Breakfast, l’appuntamento di preghiera multiconfessionale organizzato annualmente a Washington in occasione del quale Obama ha esternato il proprio sostegno in difesa dei diritti umani dei tibetani. Come allora, anche stavolta il tête-à-tête con l’illustre monaco non ha mancato di innescare la risposta stizzita di Pechino che nelle ultime ore ha intimato agli Stati Uniti di rispettare gli impegni presi in riferimento allo status del Tibet e di Taiwan, l’isola democratica che la Cina considera una provincia ribelle da riannettere ai propri territori.
La digressione su l’ex Formosa è stata resa «necessaria» dall’annuncio martedì di un pit stop statunitense (a Miami all’andata e a Los Angeles al ritorno) della nuova presidente taiwanese Tsai Ing-wen, che nei prossimi giorni raggiungerà l’America Centrale per presenziare alla cerimonia di chiusura dei lavori per l’espansione del canale di Panama, uno dei pochi Paesi a riconoscere ancora la statualità di Taiwan. Ma che, si mormora, potrebbe in futuro scaricare Taipei per stringere più stretti rapporti con la Repubblica popolare. Invitato a sua volta all’evento, il capo di Stato cinese Xi Jinping ha declinato l’offerta chiamando in causa il principio «una sola Cina», punto di frizione tra le due sponde dello Stretto per via delle posizione ambigue mantenute dalla leader del Democratic Progressive Party a riguardo.
Tibet e Taiwan (sostenuta militarmente dagli Usa) rappresentano due vecchi scogli per le relazioni bilaterali tra la prima e la seconda economia mondiale. A poche ore dal meeting tra Sua Santità e Obama, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Lu Kang ha riferito in conferenza stampa che la decisione del presidente americano di incontrare il Dalai Lama «invierà un segnale sbagliato alle forze separatiste del Tibet e danneggerà la cooperazione e la fiducia reciproca tra la Cina e gli USA» in un momento in cui la liaison tra le due potenze risulta quasi giornalmente minata da reciproche provocazioni nel Mar Cinese. Washington ha risposto all’invettiva caustica rinnovando le sue precedenti posizioni e negando un appoggio all’indipendenza del Tibet. Ma Zhu Weiqun, direttore del Comitato per gli Affari etnici e religiosi della Conferenza politica consultiva del popolo, ha dichiarato al Global Times che «la classe politica americana non ha mai smesso di manipolare il Dalai Lama per dividere la Cina».
Pechino descrive l’annessione della regione autonoma (1951) in termini di «liberazione pacifica» dal regime feudale a cui era asservita fino al secolo scorso la società tibetana. Nel 2015, il Pil del Tibet ha raggiunto i 102,6 miliardi di yuan, in crescita dell’11 per cento rispetto all’anno precedente, mentre il reddito pro capite è stato di 25.457 yuan per i residenti urbani e 8.244 yuan per i residenti rurali, contro un reddito pro capite nazionale di 21.966 yuan. Ma progresso e modernizzazione hanno innalzato la qualità della vita della popolazione autoctona snaturandone, al contempo, usi e consumi. Oltre 130 tibetani hanno scelto la morte nel fuoco per protestare contro quella che viene avvertita localmente come un’invasione delle terre ancestrali da parte del regime cinese. Il governo ha ancora mastodontici progetti ferroviari in cantiere per meglio uncinare la regione autonoma al resto del Paese.