Christian Danielewitz in mostra a Pechino con la sua «Golconda», ovvero il confine sottile su cui si muove l’artista alla ricerca di un ruolo sociale. Un deposito radioattivo di terre rare, un disastro ecologico, analizzato con un’installazione minimale e quasi scientifica, senza moralismi o facili effetti emotivi. Institute for provocation (Ifp) è uno degli spazi indipendenti più interessanti che funzionano da alcuni anni a Pechino. Iniziato e gestito dalla coppia di architetti sino-svedese Shuyu Chen e Max Ghertel e dalla ricercatrice Els Silvrants Barkley, Ifp occupa un’affascinante casa a corte nel cuore degli hutong nel centro di Pechino, in Heizhema Hutong. Nel vecchio cortile ci sono un padiglione tradizionale usato per riunioni, conferenze e studio per gli artisti in visita, tre piccoli alloggi per ospitarli e da ormai un anno uno spazio espositivo, che è chiamato Black Sesami, come l’hutong in cui si trova.
Varie collaborazioni con importanti istituzioni culturali di paesi nordici, tra cui Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia e Paesi Bassi (in particolare con la fondazione Mondrian) permettono a questa organizzazione di dimensioni ridotte e basata su un grande impegno personale dei fondatori, di organizzare scambi e incontri di valore tra artisti europei e cinesi in maniera regolare e professionale ma, allo stesso tempo, naturale e senza presunzioni. Lo spettro dei temi trattati, la diversità del lavoro degli artisti degli ospiti e degli interventi sono i motivi che rendono questo luogo interessante, vivo e a dimensione umana.
Se il nome Institute for provocation suggerisce una contraddizione di fondo (come può la provocazione essere istituzionalizzata?), la scelta non è a caso: l’impegno di Ifp consiste nel cercare di discutere e presentare gli aspetti, le tematiche e i soggetti più controversi del fare arte e cultura in Cina ed In Europa in modo non dogmatico, ma strutturato e pensato. Mentre sto scrivendo, lo spazio espositivo Black Sesami ospita Golconda, la mostra dell’artista danese in residenza Christian Danielewitz: a mio avviso, una delle più interessanti in questo momento a Pechino.
Entrando nello spazio, diviso in due sezioni, una più ampia ed una a corridoio, ci troviamo di fronte ad una struttura di acciaio industriale retro-illuminata su cui è stata montata una fotografia quasi monocromatica che mostra un paesaggio desertico in cui si notano strutture di legno nel mezzo di un paesaggio che ricorda una palude o una discarica pubblica di acque contaminate.
I colori ritoccati in toni tra bianco e nero e blue-ciano, fanno sì che l’immagine emani una forte presenza di desolazione e abbandono in cui l’orizzonte basso e lontano accentua la sensazione di un luogo al confine del mondo. Attorno alla foto e nella stanza-corridoio a fianco, sparse dappertutto, ci sono parecchie piccole palle grandi come quelle da tennis e, in mezzo, accanto a un gruppetto di queste sfere, uno strumento elettronico acceso che sembra misurare digitalmente e sonoramente determinati parametri.
Così, a prima vista, senza introduzione, la mostra risulta severa e forte nella sua austerità minimalista e quasi scientifica, senza mancare di un certo potere evocativo racchiuso nel mistero dell’immagine del paesaggio desolato. È un testo sul muro dietro l’installazione – in Inglese e in Cinese – stampato in caratteri grigi che appaiono traslucidi a seconda dell’angolo con cui li si guarda, che ci introduce e ci spiega tutta la mostra.
Nella forma semplice di un estratto da un racconto di viaggio, leggiamo che l’immagine è stata presa al confine del deserto del Gobi, sul limite nord del grande Sino–Korean Craton, di origine mesoproterozoica, datato 1500 milioni di anni, che contiene il più grande deposito naturale di «terre rare», tra cui l’elemento chiamato Lanthanum.
Questo elemento, numero atomico 57, prende il suo nome dalla parola greca «lanthanein» che significa «essere nascosto», ed è utilizzato per produrre il vetro delle lenti fotografiche e quello dei tubi di luce fluorescenti. Per una strana coincidenza, l’origine del nome corrisponde anche alla posizione del lago inquinato dove è stata scattata l’immagine, anch’esso nascosto, separato dai villaggi vicini da un muro di cemento a grata circondato da una telecamera di sorveglianza. In questi villaggi, gli esseri umani nascono con le ossa «molli» inconsapevoli del fatto che tale condizione è causata dai rifiuti tossici radioattivi nel lago. Sono I pericolosissimi residui dei processi di estrazione e di raffinazione del Lanthanum e degli altri elementi rari che costituiscono una fonte di ricchezza inestimabile a livello mondiale. Le sfere di terra compressa sparse sul pavimento di IFP sono la forma in cui questi residui si trovano visibili e sparsi attorno al lago. Ed il loro contenuto altamente radioattivo è messo in evidenza dal contatore Geiger che l’artista ha voluto posizionare loro accanto.
A dispetto del trend corrente secondo cui gli artisti devono prendere rischi e spingere oltre i limiti per avere un impatto sulla società, ma che spesso rimane confinato alla sfera auto-riflessiva di un «discorso accademico o estetico», la mostra di Danielewitz è davvero una mostra «pericolosa» a tutti I livelli. Lo è perché è pericoloso e difficile riuscire a recuperare le immagini e i materiali che costituiscono l’installazione; lo è perché semplicemente, nel visitarla, ci si espone al rischio reale (per quanto limitato) di esposizione a materiale radioattivo. E soprattutto lo è perché ci confronta con una situazione, (anziché con una metafora), reale e contingente, I cui risvolti etici e morali ci riguardano comunque tutti.
Christian Danielewitz ha costruito la sua carriera esplorando i territori del mondo esposti a violenze di ogni genere – militari, economiche, ambientali – riportando ogni volta in forma di fotografia e testo una testimonianza diversa da quella di un reporter o di uno scienziato: la testimonianza di un artista, che pur rispettando chi fa arte per esplorare confine estetici e formali, è convinto che l’arte possa avere un ruolo importante nella dimensione sociale e politica della società.
Ma è qui che il problema si pone: in che modo un artista che decide di intraprendere questa direzione apporta qualcosa di diverso da un fotografo di guerra, da un antropologo, da un documentarista o da un giornalista? Il dubbio sembra irrisolvibile da qualunque angolo, eppure, a mio avviso, esiste una dimensione estetica e comunicativa oggettiva, attraverso cui l’arte riesce a trattare queste situazioni in un modo particolare e per questo motivo aggiunge qualcosa di diverso ai punti di vista professionali precedenti, senza essere in una posizione antagonista, ma semplicemente ampliandone la portata e suggerendo un ulteriore punto di osservazione e di ingaggio.
Questo però succede solo (e in genere è piuttosto raro) quando l’artista è talmente esigente con se stesso e con la propria pratica e talmente informato sulle altre modalità di ricerca, da costruire, col proprio lavoro, un nuovo livello, fragile e delicato, in cui, come un equilibrista sospeso nel vuoto, riesce a bilanciare tutti gli aspetti del medium e del messaggio a ogni passo, in modo da evitare di «cadere» nel territorio altrui e di riuscire a testimoniare questo nuovo sentiero che si delinea proprio cercando di non passare per quelli già esistenti.
Con Golconda (il nome della cittadella Indiana conosciuta per i diamanti che dal 1880 è diventato un nome comune in inglese per descrivere prima ogni ricca miniera e poi ogni fonte di grande ricchezza in generale), Danielewitz riesce a costruire questo nuovo cammino presentandoci una realtà brutale filtrata da una particolare attenzione estetica che non ne tradisce il senso profondo, perché non lo accentua (rendendolo pop o delirante come certi fotografi avidi di un certo iperrealismo photoshoppato o crudele come nel distacco over-estetizzato delle foto di un Salgado che celebrano situazioni estreme con una bellezza patinata e chirurgica) e non lo distorce, ma lo rende presente in maniera attenta, permettendoci di vederlo meglio.
Da un altro punto di vista, l’opera e la ricerca di Danielewitz sono anche un esempio di rispetto nei confronti di situazioni la cui complessità e il cui carattere globale non permettono di indulgere in giudizi banali e grossolani, ma necessitano una presa di coscienza ben più allargata. L’artista Danese infatti non «se la prende con la Cina», ma invece usa questa sua ricerca per ricordarci che se luoghi come questo esistono è perché il mondo intero (l’Occidente tecnologico in primis avido di terre rare) e l’artista stesso, in quanto fotografo, (il Lanthanum si usa per le lenti fotografiche) sono comunque partecipi in maniera diretta del dramma del lago tossico.
Avendo discusso a lungo con Christian, ho potuto confermare la percezione, avuta fin dall’inizio, che il suo obiettivo fosse quello di lasciare gli spettatori a riflettere sui dubbi che una situazione simile può generare, anziché il suscitare reazioni emotive di grande intensità (e banalità). Questo scarto estetico quasi infinitesimale ma così accurato e non-standardizzato nella scelta dei materiali, dei colori, dei testi e della messa in scena costituisce, a mio avviso, il quoziente differenziale che rende l’arte capace di rendere visibili situazioni socio-politiche importanti in una dimensione rarefatta e con una distanza «giusta» per presentare un’altra logica rispetto a quella dominante, che tutti possono «usare» a proprio modo senza doverla adottare obbligatoriamente.
Spesso nel lavoro anche dei grandi fotografi di reportage e di guerra, soprattutto a causa dei criteri delle agenzie stampa e dei media di grande comunicazione, una certa estetica riconoscibile e diffusa e «richiesta» prende il sopravvento abolendo quell’ambiguità e quell’incertezza che sono necessarie quando si affrontano determinati contesti.
L’arte e gli artisti – quando, come nel caso di Danielewitz, sono abbastanza coraggiosi e severi con se stessi da operare un attento processo di «sostituzione» e di «sottrazione» degli aspetti più drammatici e facili della comunicazione visiva, per ottenere un versione distillata del messaggio da trasmettere – rendono possibile questo livello «altro» di comprensione che oggi come oggi diventa sempre più raro e quindi prezioso.
La mostra «Golconda» di Christian Danielewitz è a Institute For Provocation fino al 12 Giugno
FreeVantablack è la nuova rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito.
«Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.]