Definire cosa è stata la Rivoluzione culturale non è facile. Si discute sui contenuti, sulle responsabilità, sulle date e sulle colpe storiche di una generazione di cinesi investita da un furore ideologico senza precedenti. Ma «Il decennio perduto», come definito dai cinesi, si presta a letture da molteplici angolature. Sia sociale, sull’entusiasmo popolare per le «critiche» e le esecuzioni. Sia politica, sull’elaborazione teorica delle varie fazioni che si contendevano l’aderenza al pensiero di Mao Zedong.«Tra i possibili temi per il componimento c’è anche la Rivoluzione culturale. Voi occidentali siete molto interessati all’argomento», dice la professoressa all’Università di lingue straniere di Pechino assegnando i compiti per casa agli studenti.
Scena due, questa volta raccontata da un parente. Si svolge nella Sardegna dei primi anni Settanta. L’emigrato partito in Continente torna in Paese per le vacanze: «Cosa ne sapete voi, qui la Rivoluzione culturale non è ancora arrivata».
La terza frase è di Yu Hua, che ha scelto di inserire la Rivoluzione culturale tra le dieci parole per cercare di spiegare la Cina (La Cina in dieci parole, edito in Italia da Feltrinelli). «Perché discutendo della Cina di oggi faccio sempre riferimento alla Rivoluzione culturale? Perché le due sono correlate. Sebbene la società sia diversa, permangono elementi psicologici molto simili. Dopo quello dell’epoca i cinesi sono alle prese con un nuovo movimento di massa, quello per lo sviluppo economico». Ma in altri passaggi lo scrittore-dentista non dimentica altre caratteristiche dei dieci anni che vanno dal 1966 al 1976, ad esempio l’entusiasmo con cui la popolazione partecipava a processi ed esecuzioni.
Definire la Rivoluzione culturale, o meglio la Grande rivoluzione culturale proletaria, come recita il nome completo, non è facile. Già l’arco temporale offre argomento di dibattito. Quella propriamente detta copre infatti soltanto gli anni dal 1966 al 1969, quando l’intervento dell’esercito sancì il ritorno all’ordine autoritario.
L’onda lunga però si è protratta per altri sette anni, fino alla morte di Mao Zedong e all’arresto della Banda dei Quattro (Yao Wenyuan, Jiang Qing, Zhang Chunqiao e Wang Hongwen, il gruppo dirigente che deteneva il potere). Come per l’arco di tempo, anche i contenuti di quello che i cinesi definiscono «il decennio perduto» possono essere visti da diverse angolature. Furono senza dubbio una lotta intestina al Partito comunista, il cui conflitto interno era ormai giunto alla resa dei conti e portò all’epurazione di figure di spicco quali Deng Xiaoping e Liu Shaoqi.
Scrivono Stefania Stafutti e Gianmaria Ajani (Colpirne uno per educarne cento, edito da Einaudi) commentando uno degli slogan più noti dell’epoca, il «Bombardare il quartier generale!» che pare lo stesso Mao scrisse di suo pugno sul Beijing Ribao: gli avvenimenti «avevano visto uno spostamento dell’attenzione sui temi politico culturali grazie al superamento dell’emergenza economica a metà degli anni Sessanta. Si profila così l’idea di riconsiderare l’intera produzione artistica della Repubblica popolare secondo i parametri della qualità rivoluzionaria». Passati gli sconquassi provocati dal rovinoso fallimento del Grande Balzo in avanti, la Cina si gettava in una nuova utopia nata anche come forma di difesa alle critiche contro la leadership di Mao. La miccia fu la critica di Yao Wenyuan al drammaturgo Wu Han, autore dell’opera teatrale La Destituzione di Hai Rui, interpretato come la decisione di schierarsi a favore del maresciallo Peng Dehuai, deposto dallo stesso Grande Timoniere nel 1959 per essersi opposto al Grande Balzo.
Nel maggio del 1966, «le direttive di Mao in materia di educazione segnano oramai convenzionalmente l’inizio della Rivoluzione culturale», proseguono Stafutti e Ajani, e presto l’ambito di intervento «al partito, al governo e all’esercito».
Ma oltre che conflitto nel Partito comunista, sulla scia delle mobilitazione delle masse e della denuncia dell’involuzione autoritaria e burocratica dell’esperienza comunista cinese – fattori che influenzarono anche parte della sinistra extraparlamentare italiana ed europea – la Rivoluzione culturale fu furore ideologico, fu iconoclastia portata alle estreme conseguenze, fu rifiuto delle vecchie tradizioni e della vecchia cultura.
Fu figli che denunciavano i genitori; studenti che picchiavano maestri e professori; amici e vicini che si accusavano tra loro di essere controrivoluzionari. Furono le esecuzioni e le centinaia di migliaia di cinesi spinti al suicidio.
Furono gli intellettuali mandati a lavorare nelle campagne, nella convinzione che l’unica dote fondamentale per andare avanti non fosse l’istruzione, ma essere «rosso», e gli adolescenti o poco più, mandati in giro per il Paese, per loro la prima occasione di conoscere la Repubblica popolare. Furono gli anni dell’idolatria di Mao e della fedeltà cieca al Libretto rosso, condensato in citazioni del pensiero del leader, che oggi è diventato un souvenir in vendita in tutti i mercati e le bancarelle del paese.
Allo stesso tempo fu un periodo di elaborazione teorica delle varie fazioni che si contendevano l’aderenza al pensiero del Grande Timoniere, lavori oggi persi o comunque ai quali non è stato dato risalto. La Rivoluzione culturale fu infine di fatto una guerra civile, tra gruppi di Guardie rosse e tra Guardie rosse ed esercito che sparò e intervenne bombardando la stessa popolazione civile. Con il corollario del misterioso incidente aereo nel quale morì Lin Biao, l’ideatore del Libretto rosso, successore designato di Mao, accusato di voler portare avanti un colpo di stato,
Per i cinesi come detto fu il «decennio buio». L’argomento è in qualche maniera tabù. Non che non se ne sia scritto. L’intera «letteratura delle radici» è quasi una forma di espiazione e catarsi per l’epoca. Ma come sottolinea lo studioso Ji Xianlin nel volume The Cowshed: Memories of the Chinese Cultural Revolution, la memoria di quel periodo è stata raccontata in gran parte dalle vittime. Lo stesso lavoro di Ji, ricorda il Financial Times, rientra in questa categoria. Proprio lo studioso sottolinea come questo tipo di approccio rifletta soltanto un punto di vista.
Meno proficuo è invece il filone che tenta di esaminare a tutto tondo l’epoca. Un concetto che ritorna anche nelle riflessioni di Bao Pu, editore di Hong Kong e figlio del segretario politico del leader comunista cinese Zhao Ziyang. Citato da Evan Osnos sul New Yorker, Bao mette in evidenza come tutti quanti si ritengano vittime.
Ma «non si può accusare Mao per tutto ciò che è successo. Ebbe responsabilità, fu la mente, ma per raggiungere un tale livello di distruzione sociale occorre che un’intera generazione abbia da riflettere».
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