La miniera, la fornace, la città fantasma. In Behemoth, il documentario di Zhao Liang, è sintetizzato il circolo vizioso dell’oversupply che affligge la Cina. Se è vero che nell’ex impero di mezzo, la domanda del nuovo ceto medio potrebbe alla fine risolvere qualche problema, è difficile immaginare un vero e proprio cambio di paradigma. E il modello rischia di allargarsi alla vicina Asia. Inferno, purgatorio, paradiso; la miniera, la fornace, la città fantasma. Si intitola Behemoth, è il documentario del regista cinese Zhao Liang che per molti avrebbe dovuto vincere l’ultimo Festival del Cinema di Venezia. Ispirato alla Divina Commedia, raffigura alla perfezione il circolo vizioso in cui sembra essersi inceppata la crescita economica della «fabbrica del mondo»: dalla miniera, che produce il combustibile fossile, ma distrugge l’ambiente e i polmoni dei minatori (agghiaccianti le immagini delle ampolle piene di liquido nero drenato dal torace dei lavoratori), il carbone viene portato alla gigantesca acciaieria, che produce milioni di tonnellate di metallo; quando si «esce a riveder le stelle», il nostro Virgilio-Zhao ci mostra un paradiso dal cielo azzurrissimo ma senza l’ombra di un cherubino. È il quartiere di Kangbashi a Ordos, la città della Mongolia Interna diventata sinonimo di ghost city: decine di compound perimetrati con all’interno file e file di palazzi da trenta piani, che in Cina non sono grattacieli solo perché “grattacielo” è ciò che supera i trentotto, di piani. Vuoti, desolati, già cadenti.
La regione settentrionale cinese della Mongolia Interna descritta nell’opera di Zhao Liang ha un ciclo dello spreco davvero esemplare. Con le miniere, si sono arricchiti i funzionari locali che poi hanno preso ad esempio quanto avvenuto nelle grandi città per reinvestire nell’immobiliare. Se però nella geometrica urbanizzazione di Pechino e Shanghai la proprietà di una casa ha dato il via al processo che ha creato il ceto medio cinese, a Ordos le case restano vuote. Chi c’è qui? Chi ci va ad abitare? Chi mi restituisce l’investimento nel mattone?
Le ultime novità che arrivano dal fronte ghost city ci dicono che i funzionari di Ordos si stanno arrampicando sui vetri: appartamenti gratis per i pastori nomadi, mutui ultra-agevolati, organizzazione di imperdibili eventi per attirare la gente in città, come la finale di Miss Mondo nel 2012 e le olimpiadi delle minoranze etniche cinesi. Tuttavia, senza una struttura economica forte, è dura riempire tutte quelle case: anche il carbone, risorsa principale di tutta l’area, non tira più come una volta.
Insomma, in Cina prima si costruisce e poi si pensa a chi e come riempirà gli spazi vuoti. Il che è molto taoista – l’antica filosofia considera a ragion veduta più utile la parte vuota di un secchio che quella piena – ma poco pratico. Ed economico.
Costruire così corrisponde in realtà a due esigenze. Crea ricchezze immediate e permette di bruciare risorse in eccesso, come nel caso dell’acciaieria di Behemoth. Ma sul lungo periodo, porta all’estremo i difetti del modello cinese: inquinamento, investimenti che non restituiscono profitti, bolle speculative. Ora, questi nodi vengono sempre più al pettine.
Klaus Rohland, ex direttore della Banca Mondiale per la Cina, ci ha spiegato il dissenso di fondo tra la sua organizzazione e Pechino, quando si parla di urbanizzazione: «In Cina le città crescono più in dimensione che in popolazione. Noi sosteniamo che le due crescite debbano essere allineate. Loro pensano a quanti chilometri di strade o di metropolitana siano necessari e così via, mentre noi facciamo un passo indietro e guardiamo alla corretta progettazione delle città, il che significa anche l’aspetto sociale e ambientale».
Il fenomeno è diffuso e tentacolare. Cento chilometri a nord di Shenyang, nel profondo nord-est cinese, assistemmo nel 2013 all’approvazione da parte di un intero comitato municipale di un enorme progetto per la costruzione di una replica di Firenze nel bel mezzo della steppa. Avrebbe dovuto essere un grande centro commerciale, circondato dalle solite file di palazzi residenziali da trenta piani e da non meglio precisati uffici. Il locale segretario del Partito, circondato da tutti i notabili del luogo, ascoltò per un’ora il palazzinaro e gli architetti italiani che presentavano il progetto come un motore di crescita per tutta l’area, poi tagliò corto: “È bellissimo, ora sta a noi farlo diventare reale!” Tutti si riscossero dal torpore, scattò l’applauso e così avvenne l’approvazione. Non si sa poi che fine abbia fatto la Firenze nel nulla, dove per inciso il costruttore voleva piazzare una chiesa barocca ungherese al posto di Santa Croce, perché gli piaceva di più. Probabile che l’acuirsi della campagna anticorruzione abbia indotto i funzionari locali a lasciar perdere.
Nella campagna dell’Anhui, Cina centro-meridionale, alcuni intellettuali di città stanno cercando di ribaltare il modello. La valle ai piedi dei monti Huangshan è un’attrazione turistica, costellata di villaggi degli antichi mercanti Hui, con l’inconfondibile architettura di case a corte con tetti spioventi e muri bianchi. Ou Ning, l’iniziatore del progetto di “ritorno alla terra” , sta cercando di preservare il villaggio di Bishan dalla versione turistica dell’urbanizzazione, lo svuotamento delle antiche case per riempirle di negozi di souvenir, la trasformazione dei contadini i venditori di cianfrusaglie, il biglietto d’ingresso per entrare nei villaggi. Ha comprato casa ristrutturandola in maniera conservativa, ha messo in piedi una biblioteca per gli abitanti del paese, sta cercando di valorizzare le conoscenze del luogo per creare un’economia a chilometro zero, basata sull’agroalimentare. Quando iniziò l’impresa, qualche anno fa, ci disse: “Se questo esperimento funziona, ribalteremo tutto il modello di sviluppo”. Ammirevole, ma alquanto utopistico al momento. A un chilometro da Bishan, in direzione del capoluogo di contea, già sorgeva un outlet a cielo aperto circondato da villette a schiera. Vuote.
Il progetto di centinaia di nuovi centri urbani per decongestionare le megalopoli è all’ordine del giorno nella Cina di oggi. Il premier Li Keqiang insiste sulla “urbanizzazione a misura d’uomo” come motore della crescita. Si vuole limitare l’accesso ai maggiori centri e costruire città sostenibili, ecologiche, che allentino la pressione demografica. Un sistema urbano diffuso e integrato da reti informatiche e ferrovie ad alta velocità. A dare speranza, ci sono i numeri proiettati nel futuro: decine di milioni di cinesi che passano dalla condizione di mingong – migranti rurali – a quella di ceto medio che sul binomio casa-macchina costruisce la propria nuova identità. Ma il rischio è che la gente continui a convergere su Pechino, Shanghai e le altre megalopoli facendo delle nuove “città sostenibili” le ennesime ghost town.
In epoca fordista, si chiamava “esercito industriale di riserva” il proletariato già contadino e poi urbanizzato che costituiva un enorme bacino di manodopera a basso costo per le fabbriche. È un fenomeno che in Cina è durato fino a pochi anni fa. Ma il recente esaurirsi della rendita demografica a causa del calo della popolazione – complice la politica del figlio unico – ha ridotto il numero dei lavoratori migranti disponibili a lavori infami e, di conseguenza, aumentato i salari. A questo punto, il nuovo “esercito” su cui fare affidamento per continuare a spingere l’economia è quello dei consumatori. Il lavoratore migrante che si fa piccolo borghese riempirà gli appartamenti che lui stesso ha costruito. Almeno nelle speranze del Partito. Ma se un miliardo e trecento milioni di sudditi dell’ex Impero Celeste potrebbero forse occupare gli spazi vuoti, prima o poi, diverso è il caso di chi ha importato pari pari il modello cinese nella vicina Asia.
Periferia sud di Ulan Bator, Mongolia, questa volta quella indipendente. Il quartiere di Zaisan è nato dal nulla, dove qualche anno fa c’era solo steppa. Ora, decine e decine di palazzi di lusso occultano perfino la collina su cui svetta il memoriale al soldato sovietico caduto nella seconda guerra mondiale. Quattro, cinquemila dollari al metro quadro, gli appartamenti sono in gran parte disabitati. Il quartiere è il perfetto contrappunto a Chingeltei, lo slum di ger (yurte) sul lato opposto della valle, a nord. Qui, l’esplosiva ricchezza dei nuovi businessmen mongoli legati all’indotto delle miniere; là, l’affollarsi dei nomadi di recente inurbamento, che tirano a campare. Qui il vuoto, là il pieno. I mongoli non sono più di tre milioni; di questi, quasi due vivono già nella capitale e l’economia stenta. Per chi sono tutte queste case di lusso che si aggiungono al parco immobiliare già esistente?
Bayarbat è sulla trentina, ha studiato in Canada e poi è tornato a casa per cogliere le opportunità del mattone. Critica i propri connazionali, così stupidi – secondo lui – da non capire che è demenziale continuare a costruire forsennatamente senza preoccuparsi del perché. Lo dice di fronte a una delle villette a schiera per ricchi che la sua immobiliare sta tirando su, proprio sul lato sud della valle. Non afferra la contraddizione che incarna, spera che “quelli dall’altra parte”, i poveri, abbiano prima o poi abbastanza soldi per trasferirsi in massa nelle nuove abitazioni per il ceto medio-alto. Improbabile. “Se non ce la fanno da soli, ci penserà il governo – dice – con i mutui agevolati”. Devono essere agevolatissimi, i mutui, per consentire l’esodo in tempo ragionevole.
Così nasce una bolla immobiliare. E così si manda un Paese in bancarotta.
[Scritto per Il Fatto Quotidiano]