Finora si tratta solo voci che provengono dall’Italia, quelle che abbiamo raccolto a Pechino sono invece tutte abbastanza scettiche. I cinesi non buttano soldi, si dice. Perché dovrebbero cacciarli in un «buco nero» come una squadra italiana? Eppure, c’è chi pensa che l’acquisto del Milan da parte del gruppo di Jack Ma avrebbe perfettamente senso. Premessa: lo scrivente è fanaticamente, irriducibilmente, eroticamente milanista «old school» e quindi farebbe di tutto per togliersi dai piedi l’attuale proprietà/dirigenza. Fatto il necessario coming out, ecco perché per i tifosi del Milan l’accordo con Alibaba sarebbe bellissimo e al tempo stesso non necessariamente bello.
Finora sono soltanto voci che vengono dall’Italia, a parte un articolo pubblicato dal South China Morning Post – posseduto dal Gruppo Alibaba – che riporta, appunto, delle voci. Un segno? I pareri che abbiamo raccolto a Pechino tra gli addetti ai lavori sono quasi tutti abbastanza scettici. Per addetti ai lavori, intendiamo giornalisti sportivi, businessmen che operano nel marketing calcistico o che hanno avviato scuole calcio. Gente che ha a sua volta connessioni nel paludoso mondo pallonaro cinese, in piena riforma voluta da Xi Jinping. I cinesi non buttano soldi, si dice. Perché dovrebbero cacciarli in un «buco nero» come una squadra italiana?
Eppure, c’è chi pensa che l’acquisto del Milan da parte del gruppo di Jack Ma avrebbe perfettamente senso.
Rowan Simons ha 48 anni e vive in Cina da 28. Tifa West Ham United e negli anni Novanta è stato il primo commentatore di calcio straniero della CCTV, la tv di Stato cinese. Nel 2001 ha fondato ClubFootball, la prima joint venture calcistica cinese, di cui oggi è presidente. Lo scopo della compagnia è di promuovere il calcio amatoriale. In pratica ClubFootball gestisce una ventina di campi sparsi per Pechino e organizza squadre di bambini e adolescenti che ci giocano, puntando sulla crescita di una cultura calcistica basata sul divertimento e il senso di comunità. Simons è anche autore di Bamboo Goalposts (Macmillan, 2008), libro che – indovinate un po’ – racconta e spiega il calcio non professionistico nell’ex Celeste Impero.
Dunque, Milan-Alibaba, matrimonio possibile? «Nell’ambiente se ne sente parlare da tempo e anche economicamente – dice – sarebbe del tutto coerente». Per capirlo, bisogna considerare due aspetti. Primo. Il governo cinese vuole che la Cina diventi «superpotenza calcistica». Dal punto di vista imprenditoriale, questo significa una chiara indicazione a investire nel calcio.
Secondo. Su questo piano, i grandi gruppi cinesi sono in concorrenza tra loro.
Alibaba nasce come gruppo di e-commerce. Ma da tempo ha in corso una diversificazione, football compreso. Nel 2014, il gruppo fondato da Jack Ma ha comprato per 192 milioni di dollari metà del Guangzhou Evergrande, il più forte club cinese, che da allora si chiama Evergrande Taobao, con il nome del più noto sito di e-commerce targato Alibaba che si aggiunge a quello del gruppo immobiliare che prima possedeva per intero la società calcistica.
Lo scorso settembre è stato fondato Alisport, che si propone di intercettare buona parte di quei 5mila miliardi di yuan (680 miliardi di euro) che, secondo stime ufficiali, dovrebbero rappresentare il valore complessivo del mercato legato allo sport in Cina.
Come? Utilizzando la gigantesca banca dati sugli utenti dei siti di e-commerce del gruppo per vendere loro eventi sportivi, equipaggiamento e altre merci. In altre parole: facendo diventare i 500 milioni di utenti dei siti di Alibaba consumatori e praticanti di sport.
In questa diversificazione sport-oriented che diversi analisti leggono negativamente perché rivelerebbe una perdita di vista del core business, Alibaba si trova però davanti qualcuno che – nello specifico del calcio – ha agito prima: «Il Gruppo Dalian Wanda di Wang Jianlin», spiega Simons.
Dalian Wanda nasce come gruppo immobiliare e – dopo aver accumulato milioni di metri quadri, costruendo soprattutto edifici commerciali – diventa il numero uno del settore in Cina (in concorrenza con Evergrande). Passa quindi allo spettacolo, con l’acquisizione della statunitense AMC Theaters nel 2012, per 2,6 miliardi di dollari, diventando così anche il primo gruppo cinese nello spettacolo. Infine, entra a gamba tesa anche nel mercato di Alibaba facendo un accordo di partnership con Baidu e Tencent – gli altri due gruppi IT cinesi oltre a quello di Jack Ma – per creare una piattaforma di e-commerce, che nasce nell’agosto del 2015: Ffan.com.
«Sul piano sportivo – spiega Rowan Simons – Dalian Wanda possiede il 20 per cento dell’Atletico Madrid [acquisito nel marzo 2015 per 45 milioni di euro, ndr], Infront, cioè la compagnia che distribuisce i diritti televisivi per i mondiali di calcio [comprata a febbraio 2015 per 1.2 miliardi di dollari, ndr] e un mese fa è diventata uno degli sponsor di primo livello della Fifa per i mondiali, fino a quello del 2030», che per inciso la Cina spera di ospitare a casa propria. «Quando a Pechino ci furono le olimpiadi del 2008 – racconta Simons – Budweiser era la birra che sponsorizzava l’intera manifestazione. Global sponsor. A un livello inferiore stava Yanjing Beer, la birra di Pechino, che aveva acquisito solo i diritti localmente, nella città. Secondo te, durante i Giochi, quale delle due birre era posizionata meglio nei cartelloni pubblicitari in città, negli inserti dei giornali, nella pubblicità televisiva? Ovviamente Yanjing, che in teoria doveva avere meno visibilità».
Ora estendiamo il discorso alla disfida sportiva tra i maggiori conglomerati cinesi. «Wanda ha il grande club calcistico, la concessionaria dei diritti tv per la World Cup ed è il principale sponsor della Fifa. Secondo te, durante i mondiali da qui al 2030, quale sarà il gruppo con la più grande fetta di pubblicità sulla televisione cinese?»
Ed ecco che Alibaba si trova a rincorrere. L’acquisto del Milan si inserirebbe alla perfezione in questa competizione serrata.
C’è poi anche un aspetto meno trasparente. Il rallentamento dell’economia cinese e le incertezze sul valore del renminbi hanno determinato la cosiddetta «fuga dei capitali». Per i grandi gruppi, il miglior modo di esportare valuta fuori dalla Cina è quello di investire in asset all’estero, a prescindere dal fatto che restituiscano alti profitti o no. «In una fase di insicurezza dell’economia, porti i capitali dove c’è certezza del diritto», spiega Rowan Simons. «Ebbene, cosa c’è di meglio, oggi, che investire nel calcio in Europa? Porti i soldi all’estero, li rimetti in circolo, e al tempo stesso fai contento il governo che vuole un Paese “superpotenza calcistica”, perché il Milan potrebbe significare trasferimento di cultura calcistica in Cina, cioè un contributo alla causa».
Osservazione a margine, ma non troppo. «In questi investimenti, i gruppi cinesi dichiarano di solito di avere speso meno di quanto effettivamente spendono», dice Simons. Ognuno tragga le conclusioni che vuole su un accordo che ufficialmente avverrebbe sulla base – diciamo – di 700 milioni di euro e che magari invece si chiude a un miliardo. Sia dal punto di vista di chi compra, sia da quello di chi vende
Torniamo al punto di partenza: perché per i tifosi del Milan l’accordo con Alibaba sarebbe bellissimo e al tempo stesso non necessariamente bello?
Bellissimo, perché il gruppo di Jack Ma ha tantissimi soldi da investire, è un conglomerato globale, spazia dell’e-commerce al credito e ora anche allo sport. Non solo: Jack Ma è giovane – 52 anni – ha visione, è un guru per molti giovani cinesi e rappresenta il settore più innovativo dell’economia mondiale. E poi è nelle grazie del potere cinese, come dimostra la foto dove campeggia in primo piano con il presidente cinese Xi Jinping durante il viaggio negli Usa dell’ano scorso. Jack Ma è un vincente.
L’accordo non sarebbe invece necessariamente bello, perché si inserirebbe totalmente nella disfida tra grandi gruppi cinesi con, sullo sfondo, le ambizioni del governo di Pechino. Insomma, il Milan sarebbe inserito in logiche che sfuggono totalmente al controllo dei suoi tifosi.
Certo, con Berlusconi c’eravamo già abituati.