In Giappone la stampa è sempre meno libera

In by Gabriele Battaglia

Il Giappone è 72esimo nella classifica sulla libertà di stampa compilata ogni anno dalla ong Reporters Sans Frontières (RSF). Una caduta di 11 posizioni rispetto all’anno precedente che evidenzia i problemi del giornalismo locale e l’insofferenza dell’attuale governo alle critiche.«Come il Giappone è arrivato a far peggio della Tanzania sulla libertà di stampa». Così titolava un articolo del Los Angeles Times, firmato da uno dei corrispondenti stranieri in Giappone più apprezzati e seguiti — Jake Adelstein — dopo la pubblicazione della classifica di RSF.

Nel pezzo Adelstein sottolineava come il cattivo piazzamento del paese arcipelago contrastasse con il livello di sviluppo economico e istituzionale del Giappone. La poca trasparenza delle informazioni diffuse all’indomani dell’incidente di Fukushima del 2011 e di alcune politiche del governo Abe — tra cui una Legge sui segreti di stato che prevede fino a cinque anni di carcere per i giornalisti che diffondano informazioni secretate — avviate dalla fine del 2012, hanno però inciso sul giudizio di RSF. E non poco.

Mentre sei anni fa Tokyo si piazzava a livelli «europei» nel ranking di RSF, oggi si allinea con paesi come Corea del Sud (70), dove si registrano pressioni sulla stampa da parte del governo di Park Geun-hye, Hong Kong (69), dove è sempre maggiore l’influenza della Cina, e, appunto Tanzania (71), dove vige una legge del 1976 che dà al governo il potere di dichiarare illegale qualsiasi pubblicazione.

Il governo di Tokyo non ha strumenti legislativi simili, ma, complice anche l’autocensura di giornalisti, editori e tv, sta riducendo gli spazi dell’informazione libera.

Anche David Kaye, relatore speciale sulla libertà di stampa per il Consiglio Onu sui diritti umani, ha, questa settimana, evidenziato «limiti all’indipendenza della stampa» in Giappone, richiamando il governo a una revisione della Legge sulle trasmissioni e un maggiore rispetto della Carta costituzionale che tutela le libertà di espressione e associazione.

Secondo un’interpretazione conservatrice della Legge sulla radio (art. 76), il governo può ritirare la licenza a una trasmissione che violi le regole di «equilibrio politico» e «non distorsione dei fatti» sancite dalla Legge sulle trasmissioni.

Al di là delle annotazioni di Kaye, le difficoltà nel lavoro giornalistico in Giappone non sono certo una novità. Esse risalgono a ben prima del 2016 e del governo Abe. Con il senno del poi, più della «caduta» al 72esimo posto, sorprende di più che nel 2010 il Giappone fosse undicesimo nella classifica di RSF.

Un articolo dello stesso anno disponibile sul sito della ong Committee to Protect Journalists segnalava le difficoltà a cui la stampa giapponese deve da anni far fronte: tra le altre, l’assenza di un’ente regolatore indipendente delle trasmissioni radio-televisive che favorisce gli interventi governativi, lo strapotere economico di poche agenzie pubblicitarie in grado di tenere sotto scacco piccole pubblicazioni e leggi a tutela della protezione delle informazioni personali.

Ma sono soprattutto i kisha club a inibire il giornalismo indipendente. Questi circoli riservati a giornalisti accreditati agiscono da «filtro» tra gli organi rilevanti — come ministeri, grandi aziende e polizia — giornalisti e opinione pubblica, escludendo nella maggior parte dei casi freelance e stampa estera. Sul tema negli anni si sono battuti, tra gli altri, politici, giornalisti e alcuni corrispondenti stranieri — tra cui l’italiano Pio D’Emilia — ma una vera riforma tarda ad arrivare.

Il quadro non è però del tutto negativo. Internet, i social network e alcuni settimanali, tra cui alcuni tabloid scandalistici, offrono ancora spazi di informazione libera da condizionamenti politici.

A marzo del 2015, Martin Fackler, per anni corrispondente del New York Times da Tokyo l’aveva scritto chiaramente in un intervento pubblicato dal quotidiano locale Kanagawa Shimbun: sono settimanali come il Nikkan Gendai e lo Shukan Kinyobi a fare il lavoro d’inchiesta che spetterebbe ai grandi giornali nazionali accusati di essere «sonnolenti» nei confronti del governo e degli altri poteri forti.

Le recenti dimissioni del ministro dell’economia, Akira Amari, coinvolto in uno scandalo di corruzione, ne sono state la dimostrazione. È stato il settimanale, principalmente scandalistico, Nikkan Gendai ad aprire il caso. Discorso simile per lo Shukan Kinyobi che, nel suo piccolo, continua ad offrire articoli di approfondimento mantenendo un punto di vista critico.

Finché queste voci critiche non saranno silenziate, il governo dovrà stare attento. Le recenti mobilitazioni contro le leggi di sicurezza hanno dimostrato che una buona parte di opinione pubblica è attenta. Ed è pronta a scendere in piazza malgrado il sonno di qualche grande organo d’informazione.

[Scritto per Eastonline]