I titoli della rassegna di oggi:
– Pechino: «Donald Trump è irrazionale»
– Debiti online: l’altra faccia dell’e-commerce in Cina
– Live streaming, il passatempo remunerativo dei giovani cinesi
– Un articolo – poi sparito – apparentemente a difesa di Xi Jinping
– L’industria della pesca taiwanese è fuori controllo
– Dopo il terremoto in Giappone, Toyota ferma la produzione per una settimanaPechino: «Donald Trump è irrazionale»
Donald Trump è un «tipo irrazionale» e gli Usa non potranno mantenere la leadership mondiale se metteranno in pratica quanto proposto dal candidato repubblicano. Lo ha dichiarato in un’intervista al Wall Street Journal il ministro delle finanze cinesi, Lou Jiwei, riferendosi alla posizione xenofoba assunta da Trump in campagna elettorale. Tra le proposte più anti-cinesi del magnate c’è quella dell’introduzione di tariffe del 45 per cento sui prodotti «made in China».
Un provvedimento che Lou ha definito in violazione alle norme della World Trade Organization (Wto). Ad ogni modo, il ministro ha fatto notare che ormai Cina e Stati uniti sono «dipendenti l’uno dall’altro», malgrado alcuni punti di frizione. Lou è il funzionario di più alto livello ad aver rilasciato un commento così specifico su uno dei candidati alla presidenza americana. Il ministro ha inoltre invitato Washington ha fare di più per la ripresa globale, ricordando il ruolo esercitato dalla Cina nell’annus horribilis 2009, quando Pechino varò il salvifico pacchetto di stimoli da 4mila miliardi di yuan.
Debiti online: l’altra faccia dell’e-commerce in Cina
«Il vero dramma dei giovani neolaureati cinesi non è più essere lasciati o dover trovare lavoro, ma ripagare i debiti contratti online». Un tweet apparso su Weibo sintetizza bene la portata raggiunta negli ultimi 5 anni dall’insidioso sottobosco del micro-credito online. L’altra faccia dell’e-commerce. In Cina, ormai molte piattaforme offrono ghiotti incentivi per i giovani, snellendo le pratiche burocratiche (basta soltanto mostrare la propria ID card e compilare un breve modulo di richiesta, la cui approvazione di solito arriva in meno di 24 ore), ma nascondendo subdolamente le tasse extra sul servizio. Succede così che molti, ritrovandosi ricoperti di debiti, siano costretti a chiedere aiuto ai genitori o a commettere gesti estremi. È questo il caso di Zheng, uno studente dello Henan che dopo aver accumulato passività pari a 150mila dollari servendosi dei documenti di 28 compagni, lo scorso mese ha deciso di togliersi la vita.
Live streaming, il passatempo remunerativo dei giovani cinesi
Se gestiti con cautela offrono fama e facili guadagni. Ma se con eccessiva disinvoltura possono portare innumerevoli grane. Sono i siti di live streaming, il nuovo passatempo dei giovani cinesi stanchi delle soap opera e dei programmi patriottici trasmessi dalla tv statale. Secondo il ministero della cultura cinese, le piattaforme di live-streaming – su cui è possibile postare stralci di vita quotidiana – contano già circa 200 milioni di utenti.
C’è chi «mettendoci la faccia» spera di riuscire a pagarsi gli studi all’estero, grazie ai «regali virtuali» che il pubblico dona ai propri intrattenitori preferiti. Una pratica piuttosto diffusa in Cina che ricalca quella delle hongbao, le buste rosse distribuite durante il Capodanno. Il problema è che nella maggior parte dei casi a piazzarsi davanti alla webcam sono giovani ragazze ammiccanti in abiti discinti. È per questo che, ultimamente, molte piattaforme (come Douyu) sono state aggiunte alla lista nera dei siti sanzionati per la propagazione di contenuti pornografici o discutibili.
Un articolo – poi sparito – apparentemente a difesa di Xi Jinping
La situazione dei media cinesi si fa sempre più intrigante. Dopo mesi di speculazioni su una presunta disunione tra gli organi di informazione e la leadership del Partito, martedì scorso un nuovo episodio ha fornito materiale di discussione. Si tratta di un caso di censura riguardante un articolo pubblicato sul sito Jiemian (Shanghai United Media Group) – apparentemente – in difesa di Xi Jinping. «Apparentemente» in quanto già il titolo in sé nasconde una velata provocazione: Has Xi Jinping Properly Kept His Relatives in Check?. Il pezzo – non più rintracciabile online – assolveva il presidente da qualsiasi presunto coinvolgimento nei torbidi affari di famiglia portati alla luce dai Panama Papers, andando, tuttavia, a toccare un argomento considerato offlimits per la stampa cinese e non solo. Venerdì la polizia di Guangzhou ha trattenuto temporaneamente un avvocato per al difesa dei diritti umani colpevole di aver postato su WeChat un messaggio denigratorio nei confronti di Xi Jinping, contenente chiari riferimenti ai leaks sui paradisi offshore della nomenklatura cinese.
L’industria della pesca taiwanese è fuori controllo
Lo rivela un rapporto di Greenpeace che mette in luce diversi punti critici dalla pesca illegale di tonni, alla caccia agli squali per le pregiate pinne (finning), fino alla violazione dei diritti umani se si tengono in considerazione le condizioni in cui operano gli oltre 160mila lavoratori migranti impiegati nel settore. Sebbene Taiwan sia stato il primo paese a vietare il finning, i controlli inefficaci della Fisheries Agency non sono riusciti a estirpare la pratica, punita dall’Ue lo scorso ottobre con un «cartellino giallo».
L’inchiesta giunge in un periodo in cui la pesca illegale è sempre più al centro delle schermaglie sui territori contesi del Mar cinese meridionale. Proprio in questi giorni Sea Shepherd, la no profit votata alla conservazione dell’ambiente nata nel 1977, si è avventurata per la prima volta nella storia in acque hongkonghesi dopo aver inseguito un peschereccio cinese pizzicato a pescare con reti a strascico nel nord dell’Oceano Indiano.
Dopo il terremoto in Giappone, Toyota ferma la produzione per una settimana
Mentre il numero delle vittime del terremoto sale ad almeno 41 morti, la Toyota Motor, il più grande costruttore di auto al mondo, ha annunciato l’interruzione di gran parte della produzione interna per circa una settimana a partire da lunedì. L’episodio evidenzia la vulnerabilità della compagnia davanti ai disastri naturali. Un problema, già emerso durante la catastrofe del 2011 (quando a morire furono in 20.000), riconducibile alla strategia del «just in time», che permette alle aziende di operare senza bisogno di costose scorte, avvalendosi piuttosto della consegna di piccole quantità di componenti al momento del bisogno. Un metodo che in condizioni normali può essere vantaggioso, ma che in situazioni di crisi continua a rivelarsi penalizzante.
È la seconda volta dall’inizio dell’anno che la Toyota si ferma. A febbraio un incendio presso un fornitore di acciaio aveva fatto scendere la produzione della compagnia del 4 per cento nei primi due mesi del 2016.