Secondo un’esclusiva della Reuters, la Banca d’Italia starebbe effettuando ispezioni in loco nelle varie sedi italiane di Bank of China, l’istituto di credito statale da alcuni anni al centro di indagini per aver facilitato presunti flussi di denaro illecito tra il Belpaese e la Repubblica popolare. Si parla di 297 persone coinvolte (sopratutto cinesi) e oltre 4,5 miliardi di euro tra il 2006 e il 2010, parte dei quali incanalato attraverso l’operatore di money transfer Money2Money. Le vicissitudini italiane arricchiscono il quadro minuziosamente tratteggiato da una recente inchiesta di Ap, che individua nella Cina la capitale mondiale del riciclaggio.
Da alcuni giorni l’Unità di Informazione Finanziaria (Uif), l’intelligence finanziaria di Bankitalia, sta passando al setaccio gli uffici italiani della Bank of China, una delle «big four», le quattro principali banche statali della Repubblica popolare. Secondo una fonte della Reuters, la task force si sarebbe mobilitata sulla base dell’inchiesta «Fiume di denaro» rilanciata dalla procura di Firenze a un anno dal rogo alla fabbrica Teresa Moda di Prato con lo scopo di tracciare i flussi illeciti tra l’Italia e la Cina. Si parla di 297 persone coinvolte (per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio lo scorso giugno), e oltre 4,5 miliardi di euro trasferiti illegalmente oltre la Muraglia tra il 2006 e il 2010.
Parte dell’indagine fiorentina si focalizza sui rapporti tra Bank of China e l’operatore di money transfer Money2Money, un’agenzia di Bologna (non più attiva) specializzata nello spostamento di somme irrisorie per conto della comunità cinese italiana, in particolare quella residente nel distretto di Prato e Firenze. Piccoli numeri che sfuggivano al fisco, ma che presi tutti insieme diventavano miliardi.
L’ipotesi è che l’agenzia si servisse di cosiddetti «nominativi zombie» – cioè cinesi ignari di essere finiti nel giro – o prestanome del tutto consapevoli, per spezzettare grandi quantità di denaro in mano a imprenditori, sempre cinesi, e trasferirle quindi nella Repubblica popolare. Una fortuna racimolata perlopiù attraverso la contraffazione, l’immigrazione illegale e l’evasione fiscale, di cui circa la metà (2,2 miliardi di euro) pare sia passata proprio attraverso la filiale milanese di Bank of China.
Non è ancora ben chiaro se ci sia un legame tra l’agenzia di Milano e la casa madre in Cina. Tuttavia, l’istituto di credito era già finito nel mirino dell’UIF tra il 2008 e il 2009, quando le autorità di vigilanza rilevarono un primo coinvolgimento della banca cinese nelle centinaia di transazioni nebulose effettuate attraverso Money2Money. Al tempo non furono prese misure punitive, ma tra il 2011 e il 2012 tutto il materiale raccolto fu passato ai pm di Firenze. Durante l’udienza preliminare dello scorso marzo, Bank of China è stata chiamata a rispondere ai sensi della legge 231 sulla responsabilità amministrativa «per non aver segnalato le operazioni sospette». Imputati anche quattro suoi dirigenti che all’epoca dei fatti lavoravano presso la succursale di Milano.
Contattata dalla Reuters, la banca ha smentito l’esistenza di un collegamento tra l’inchiesta «Fiume di denaro» e le ispezioni di questi giorni, definite «una procedura di routine» che viene applicata ogni tre-cinque anni.
All’inizio del mese è stata la China Banking Regulatory Commission, l’authority del settore, a richiamare agli ordini gli istituti creditizi considerati troppo disattenti nei confronti dei loro branch esteri e degli affari dei propri clienti. La strigliata è giunta a pochi mesi dall’arresto di cinque direttori della sede di Madrid dell’Industrial and Commercial Bank of China, la prima banca al mondo per capitalizzazione di borsa e per profitti. Anche in quel caso si era parlato di un sospetto coinvolgimento dell’istituto nel trasferimento di fondi neri nel Paese di Mezzo.
Le vicissitudini italiane e spagnole vanno ad arricchire il quadro minuziosamente tratteggiato da una recente inchiesta dell’Associated Press, che individua nella Repubblica popolare la capitale mondiale del riciclaggio. Da qui si dipana un sistema complesso fatto di transazioni false, export e import gonfiati, «direct foreign investment» fasulli, banche illegali e passaggi di denaro contante grazie al quale una serie di organizzazioni criminali sarebbe in grado di riciclare miliardi di dollari sfruttando la reticenza delle autorità cinesi a condividere informazioni e prove con gli inquirenti internazionali. Dai narcos messicani e colombiani ai trafficanti nordafricani, passando per le gang israeliane.
Le cose, tuttavia, potrebbero cambiare ora che Pechino cerca di far fronte alle proprie beghe (leggi: emorragia di capitali in uscita e funzionari in fuga col malloppo). Tra i primi a beneficiare della nuova «policy» c’è la nota casa produttrice di giocattoli Mattel che, dopo essere finita al centro di una maxi frode con epicentro a Wenzhou (la capitale del «credito ombra» in cui tutt’oggi piccole attività operano sotto copertura come agenzie di money transfer), si è vista restituire tutta la refurtiva dall’istituto di credito locale, la Bank of Wenzhou.
D’altra parte, come spiegava tempo fa alla Reuters Mark Wightman, partner di Ernst & Young, «se si guarda alle multe a livello globale e si considerano le imprese più sanzionate in termini di anti-riciclaggio, in cima all’elenco non troveremo banche cinesi, sebbene alcune siano state invitate a rafforzare i controlli».