Mercoledì 30 e giovedì 31 marzo all’Aja si sono tenute le prime due udienze del procedimento arbitrale che dovrà decidere – tra 3 o 4 anni – dove si terrà il processo sull’omicidio di Ajesh Binki e Valentine Jelastine, i due marinai indiani freddati da colpi di arma da fuoco che l’India imputa ai due fucilieri di Marina Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Il primo punto discusso in aula è stato l’eventuale ritorno in Italia di Salvatore Girone, che potrebbe così attendere l’esito finale circa la giurisdizione del caso tra i confini italiani. L’India ha fatto muso duro ma non senza aperture che però trasformano la sentenza (prevista entro un mese) in una valutazione dell’affidabilità italiana. Che con l’India, nel caso dei marò, ha precedenti non propriamente onorevoli.Durante il dibattimento, secondo quanto riportato dalla stampa italiana, giustificando la richiesta di rientro del fuciliere su basi «umanitarie», il team legale italiano ha avanzato l’impegno ufficiale del paese ha «rispettare ogni decisione della Corte», dicendosi disposti a dare garanzie sul ritorno in India di Girone e Latorre qualora la giurisdizione del caso fosse data all’India. Tra le garanzie ipotizzate si parla del controllo del passaporto di entrambi i fucilieri e dei loro movimenti in territorio italiano.
La posizione indiana rimane formalmente contraria, intendendo la richiesta di rientro di Girone come una copia esatta della medesima richiesta avanzata dall’Italia al Tribunale del mare di Amburgo (Itlos) lo scorso mese di agosto. Richiesta che l’Itlos aveva respinto.
Ma in questi due giorni all’Aja i legali indiani hanno lasciato intendere un’apertura sostanziale, chiedendo che sia la Corte arbitrale stessa a indicare che garanzie l’Italia dovrebbe dare per permettere il rilascio del fuciliere.
In sostanza, l’India dice ai giudici: «Noi non siamo d’accordo ma decidete voi, ci adegueremo». E non potrebbe dire altro, avendo acconsentito a portare il caso all’arbitrato internazionale.
Ora la palla, come aveva auspicato l’Italia spingendo per la cosiddetta «internazionalizzazione del caso» anche in campo legale (constatando il fallimento in campo politico e diplomatico), passa al pool di cinque giudici internazionali che forma la Corte arbitrale, che dovranno esprimersi – entro un mese, si dice – su due aspetti.
In primis, valutare se la limitazione prolungata della libertà di Salvatore Girone – che, salvo due licenze di un mese, è in India da tre anni e nove mesi – configuri una violazione dei «diritti umani» e risponda ai criteri di «urgenza» e «rischio di pregiudizio irreparabile», precondizioni per accogliere la richiesta di parte italiana.
Ma soprattutto, dovranno valutare l’onorabilità dell’Italia, che non è purtroppo nuova a rimangiarsi la parola data. E l’India sa piuttosto bene.
Il disastro del marzo 2013
Il precedente riguarda nello specifico il caso Enrica Lexie.
Siamo agli inizi del 2013, governo Monti, ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata. I fucilieri Girone e Latorre ottengono dalla Corte suprema indiana una licenza – la seconda, dopo quella di Natale 2012 – per tornare in Italia in e poter votare nella tornata elettorale nazionale. A garanzia del loro ritorno a New Delhi entro la scadenza della licenza, l’allora ambasciatore italiano in India Daniele Mancini aveva firmato un «affidavit» di fronte alla Corte suprema indiana.
Ma pochi giorni dopo l’arrivo dei due fucilieri in Italia, il ministero degli esteri invia una lettera alle autorità indiane dicendo esattamente il contrario di quanto dichiarato di fronte ai giudici indiani: i marò non torneranno, abbiamo cambiato idea.
La reazione della Corte suprema indiana, vittima di un affronto senza precedenti nella storia dell’India indipendente – «nemmeno il Pakistan era arrivato a tanto», affermavano allora i giornali – sarebbe stata furiosa: sospensione dell’immunità funzionale dell’ambasciatore Mancini con ordine di fermarlo alla fronitera nel caso avesse tentato di uscire dal paese: se non tornano i marò, ci teniamo l’ambasciatore.
In un balletto politico penoso, dopo la decisione del governo Monti di mantenere la parola data e rimandare in India i marò, il ministro degli esteri Terzi si sarebbe dimesso, passando dall’altra parte della barricata e diventando uno tra i più strenui difensori dei «nostri marò».
[Scritto per Eastonline]