Seconda puntata del reportage dal delta del Fiume delle Perle, già sinonimo di manifatture e ora simbolo della crisi/transizione cinese. Dopo la filiera del tessile, ecco altre fabbrichette dove gli imprenditori si interrogano sul domani. E intanto, gli operai migranti di seconda generazione mettono a punto singolari strategie di sopravvivenza. La prima puntata: Dongguan, sul fronte della crisi
La nuova torre di Baidu e poi quella di Tencent. Il vialone prosegue e cominciano le università: la Beida di Pechino, quella cinese di Hong Kong, una sede distaccata di Wuhan. E poi di nuovo i giganti tecnologici – soprattutto hardware e reti – mentre i prefabbricati delle maestranze sputano fuori uomini con i loro caschi gialli, uguali in tutta la Cina. Tecnologia e conoscenza sono il futuro già massicciamente presente nella città simbolo del boom manifatturiero cinese; la proprietà immobiliare, esagerata, è il collante che le tiene insieme.
Zeng Xinhui è felice di mostrare questa abbondanza di chip e cemento. Lui lavora alla Emerson, nel settore reti, indica orgoglioso il nuovo «grattacielo della musica» e anche «quello del software». A ogni piano, un’impresa tecnologica dove file di computer sostituiscono la vecchia catena di montaggio. Se nella Silicon Valley californiana i campus dei giganti IT si distendono orizzontali nel verde, qui – nella provincia cinese del Guangdong – si predilige lo sviluppo verticale, in una rinnovata sfida tra torri e campanili che ricorda il medioevo dei comuni ma che è l’ipermodernità post-industriale.
Sotto, le strade non ci sono ancora. Cumuli di scarti da cantiere, montagnole di fango. Prima si fa il palazzo di vetro proteso fallicamente verso il cielo, poi i servizi e le infrastrutture. «Sei già stato a Shenzhen, vero? Dimmi tu, c’era già questo? No, giusto? Hanno fatto tutto in tre anni», dice Zeng.
In mezzo ai cantieri c’è un’edicola che non vende neanche un giornale. Solo bibite e schede telefoniche. «Nessuno legge, non c’è tempo».
Anche alcuni imprenditori di Dongguan stanno investendo nel mattone di Shenzhen. Perché qui il mercato immobiliare è il più redditizio della Cina mentre lì, in quella propaggine settentrionale della stessa Zona Economica Speciale, nella «fabbrica della fabbrica del mondo», pare che fare industria, produzione, non abbia più senso. Dongguan è il prolungamento naturale di Shenzhen, se per «naturale» intendiamo anche la proliferazione cellulare di capannoni, laboratori e scantinati. Due città diffuse, dieci e otto milioni di abitanti, una la continuazione dell’altra; la prima, il sogno realizzato del «Piccolo Timoniere» Deng Xiaoping, la seconda subappalto dello stesso sogno. Ma a Dongguan il futuro ancora non si vede. Ne parlano i giornali e il segretario del Partito locale, Xu Jianhua, sembra arrampicarsi sui vetri – probabilmente quelli dei grattacieli di Shenzhen – quando sostiene che nella città-prefettura grande come la Lombardia e con il suo stesso numero di abitanti continuano a nascere più imprese di quante ne muoiano. «Nel 2015, ne sono state chiuse 268 di grandi dimensioni – ha dichiarato Xu a fine febbraio – ma rispetto al totale di circa 5.400, il numero è limitato e comunque sotto controllo».
Sì, ma il problema esiste e tutti esprimono malessere. Il fatto è che le imprese di questa zona – piccole, medie, ma anche grandi – hanno inondato l’Occidente di merci a buon mercato negli ultimi trent’anni. Ora, dalle nostre parti, non si compra più. A febbraio 2016, l’export cinese è calato del venti per cento anno su anno.
Crisi o transizione? Guardare la Cina dal delta del Fiume delle Perle – nome romantico per una realtà molto più prosaica – è vedere due storie diverse: la frontiera tra il “modello Cinese” che non funziona più e quello che, forse, sarà: Dongguan, la città fabbrica; Shenzhen, la città-quasi-tecnologica.
«Come potrei essere di Shenzhen? Secondo te se lo fossi, farei un lavoro così duro?» Il tassista è del Guangdong ma viene dalla campagna. «Quelli di Shenzhen fanno festa e alla sera fumano marijuana», dice in maniera abbastanza bizzarra. Il viaggio da Shenzhen alla contea di Dalang, a Dongguan, è stato un susseguirsi di palazzine industriali, dormitori operai e nuovi compound residenziali, il tutto intervallato dalla meravigliosa vegetazione tropicale che si insinua ovunque in questa Cina dell’estremo sud.
Pinzhi, «qualità», è il mantra dei piccoli imprenditori di Dongguan che resistono. Dice di farla anche il signor Dong, che produce calchi di mani, tipo quelle impronte sul Sunset Boulevard di Hollywood, «come regali per convention, matrimoni e occasioni varie». Una ventina di dipendenti, solo quattro operai e tutti gli altri attaccati al computer per vendere il prodotto online. Costi di produzione bassi e voglia di investire nel marketing, perché per questo prodotto così qiguai – bizzarro tendente all’assurdo – l’importante è convincere potenziali acquirenti della sua assoluta indispensabilità. Dong, che avrà al massimo quarant’anni, ha le idee molto chiare: «C’è crisi a Dongguan, quindi le imprese tagliano il non necessario, per esempio il mio prodotto come regalo per le convention aziendali. Ma finché i cinesi faranno figli, ci sarà sempre qualcuno che vorrà il calco della mano di suo figlio neonato e poi a cinque, dieci, quindici anni, quindi non temo il futuro. Basta farsi conoscere». Ha bisogno di un responsabile marketing, lui.
E qui viene il problema, comune a molti piccoli imprenditori di Dongguan, perché manca la liquidità per investire. «Le banche di Stato non ci prestano i soldi, così molti devono ricorrere ai gaolidai – i prestiti usurai – e poi vanno in bancarotta». Qual è la soluzione?
«Trovare un partner che entri nella tua attività», va dritto al punto Dong. Non solo un partner: ci vuole un amico, un membro della famiglia allargata. Si chiama guanxi, è la rete relazionale cinese, la risorsa materiale numero uno.
L’unico che non dice di fare qualità è Chen Yantong, che produce scatoloni di cartone e sta al piano terra della stessa palazzina industriale dove si trova il laboratorio di Dong. Quarantadue anni, viene dal Sichuan. In realtà, lui è solo il terzo gradino della filiera: qualcun altro fabbrica la carta, poi c’è chi la trasforma in cartone e infine arriva Chen, che lo taglia e fa le scatole. Il suo business così semplice è in realtà termometro dell’economia di Dongguan, perché le scatole servono a impacchettare ciò che qui effettivamente si vende. «Nell’ultimo anno sono passato da un milione di pezzi al mese a 500mila», dice, mentre serve l’ennesimo tè. «Come me la cavo? Riducendo i costi di produzione, che devo fare? Sia il costo del lavoro, sia la qualità dei materiali».
«Cosa chiederemmo ai nostri leader? Di tagliare le tasse», dice senza esitare Dong. «Di risolvere il problema dei pagamenti in ritardo», spiega invece Chen. Questo, soprattutto, sembra un problema diffuso: «Una volta – racconta il produttore di scatoloni – c’è stato un cliente che continuava a rimandare il pagamento di ciò che mi doveva. Alla fine, mi sono presentato di persona a riscuotere e la fabbrica del mio debitore non c’era più, al suo posto ce ne stava un’altra. In questi casi, non c’è niente da fare.»
E gli operai? Di nuovo a Shenzhen. L’appuntamento è all’uscita C di una fermata della metropolitana. Jas, nome in codice di una militante cinese per i diritti del lavoro, è giovane, sorridente, e gira in bicicletta. Ha studiato negli Stati Uniti, ha legato con un gruppo di ispirazione marxista che legge la transizione cinese con taglio critico, diffonde analisi, traduce studi accademici, coopera con Ong che cercano di informare gli operai e al tempo stesso fa inchiesta sul campo agendo di sponda con istituti universitari.
Spiega alcune tendenze che riguardano il mingong di nuova generazione, il migrante rurale non più semplice carne da lavoro alla catena di montaggio. L’estrema mobilità li rende organizzabili solo su bisogni immediati: paghe non corrisposte o inferiori al dovuto, un condizionatore che non funziona in laboratorio. Poi se ne vanno. E così, i giovani abbandonano il lavoro industriale per creare business legati all’e-commerce nei luoghi di provenienza. Lasciano la fabbrica – che magari ha chiuso – tornano al villaggio, che spesso è ormai una periferia urbana, e creano centri di «smistamento ordini» voluti, forse sponsorizzati, da Alibaba o Jingdong, i giganti dell’e-commerce cinese. In pratica i ragazzi raccolgono gli ordini degli abitanti del paese che non sono in grado di fare le richieste da soli. O magari li aiutano a fare il proprio negozio online. È lo scriba di villaggio nella versione informatica; il piccolo intellettuale contadino che aiutava gli analfabeti a scrivere lettere e che ora crea e-commerce.
Qui si capisce come gli interessi dei golden boy della new economy cinese e quelli del governo coincidano: «Tu mi fai da cuscinetto per la dismissione della classe operaia – dice il Partito – e io ti tengo sul palmo di mano». Viene in mente il presidente Xi Jinping che posa in una storica foto di gruppo a Seattle, Usa, tenendosi al fianco Jack Ma, il fondatore di Alibaba divenuto ormai guru.
Tuttavia, la transizione dall’operaio al giovane telematico non è ancora compiuta, dice Jas. È molto semplice: «I contadini comprano già su Taobao o si rivolgono ancora al mercatino vicino a casa?»
Risposta scontata. I tempi, forse, non sono ancora maturi. E i cinesi aspettano pazienti e resilienti che la transizione avvenga.
[Scritto per Thetowner.com. Foto: Gabriele Battaglia]