Finora si parlava solo di PM2.5 che ti entrano nei polmoni, ma l’utilizzo del carbone provoca anche la desertificazione, secondo quanto sostiene un rapporto Greenpeace. Si tratta di una brutta gatta da pelare per la Cina, dove la maggior parte delle centrali e delle industrie che utilizzano il carbone come combustibile si trova proprio nell’arido nord. A Pechino, il primo aprile tirava un forte vento da nord-ovest. Quando queste condizioni si verificano in inverno, l’aria è gelida e pulita. Il tradizionale «pesce» ci ha regalato invece un risveglio con centraline dello smog schizzate oltre quota 500, per poi scendere drasticamente sotto il livello 50 al calare del vento. Come si spiega?
D’inverno, le terre che stanno a nord-ovest di Pechino, su su verso la Mongolia e il Gobi, sono ghiacciate e il vento da nord ovest porta un gran freddo salutare che spazza via lo smog; quando il ghiaccio se ne va, a primavera, da quelle lande in progressiva desertificazione il vento porta invece la sabbia e la polvere, su cui si fissano le sostanze inquinanti. Fortunatamente, si tratta di PM10, microparticelle da 10 micron di diametro, abbastanza grandi cioè da poter essere filtrate da mascherine e peli del naso (che infatti brucia). Con le PM2.5, prodotte dalle emissioni inquinanti e ancora più microscopiche, sarebbe tutto molto più difficile. Passano attraverso le nostre difese artificiali e naturali per installarsi nell’organismo e fare danni. Sono carbone puro dissolto nell’aria che – quando il vento tira da sud a nord – viene su dall’Hebei, la regione industriale attorno a Pechino.
Il fenomeno appare del tutto coerente con il rapporto diffuso lo scorso martedì da Greenpeace, secondo cui, nella Cina settentrionale, si è creato un vero e proprio ciclo inquinamento-desertificazione di cui la gente, quotidianamente, respira le conseguenze. È qui, infatti, che si concentrano le industrie dell’acciaio, della chimica, del cemento, che utilizzano alte quantità di carbone ed emettono fumi tossici nell’aria. Ed è per questo che finora erano state criticate. Ma oggi si scopre che contribuiscono anche alla distruzione delle risorse idriche. Ed è questa la novità.
Le province a nord dell’ex Celeste Impero sono infatti terreno arido. Per renderlo coltivabile e abitabile, i cinesi compiono grandi opere idrauliche dalla notte dei tempi. L’ultimo di questi progetti è il cosiddetto «Progetto di Diversione Sud-Nord», che porta l’acqua dallo Yangtze fino a Pechino. Ebbene, secondo Greenpeace, proprio il consumo idrico accentuato da parte delle grandi industrie fa sì che l’acqua venga utilizzata più velocemente di quanto venga rigenerata, alterando l’ecosistema. Ed ecco perché il vento di primavera-estate porta polvere negli occhi e nel naso.
Il carbone consuma acqua anche di per sé, senza bisogno di acciaierie o petrolchimici. Lo studio dell’organizzazione ambientalista rivela che, nel 2013, le 8.359 centrali elettriche a carbone esistenti nel mondo hanno consumato 19 miliardi di metri cubi di acqua dolce, la quantità sufficiente a soddisfare le esigenze di oltre un miliardo di persone, un settimo della popolazione mondiale. Se si considerano anche le risorse idriche utilizzate per l’estrazione e il lavaggio del carbone, ne vengono consumati circa 23 miliardi di metri cubi ogni anno.
Sempre secondo il rapporto Greenpeace, alla fine del 2013 la Cina ospitava il 45 per cento delle centrali a carbone presenti nel mondo, per una capacità di 804 gigawatts. Ogni anno, nella Repubblica Popolare gli impianti a carbone consumano 7,4 miliardi di metri cubi d’acqua, abbastanza da soddisfare il fabbisogno di 406 milioni di persone. Sebbene Pechino si sia impegnata a ridurre l’utilizzo di combustibili fossili, Greenpeace East Asia riporta che lo scorso anno in Cina sono state approvate 210 nuove centrali, per un costo economico di 100 miliardi di dollari e un costo ambientale incalcolabile. La metà dei nuovi impianti, che avrebbero una capacità totale di 237 gigawatt, sorgerebbero nelle aree che già soffrono di carenza idrica. Consumerebbero 1,8 miliardi di metri cubi di acqua, pari al fabbisogno annuo di 100 milioni di persone.
Con l’economia in rallentamento e la attuali centrali che lavorano a ritmo ridotto, l’organizzazione ambientalista si chiede come mai ci sia bisogno di costruire altri impianti. Per combattere l’inquinamento, Pechino si propone di raggiungere il proprio picco del carbone entro il 2020. Tra le strategia proposte, c’è la concentrazione delle centrali a carbone in quattordici aree del Paese, ben distribuite ed evidentemente distanti dalle zone a maggiore densità demografica. Introducendo la variante «acqua» (e desertificazione), Greenpeace intende dimostrare che il picco deve essere raggiunto ben prima e che servono misure decisamente più drastiche.