Violenti scontri sono scoppiati nella notte tra lunedì e martedì a Hong Kong, quando la polizia ha cercato di sgombrare dei venditori di strada dal quartiere peninsulare di Mong Kok. Sulla protesta dei commercianti abusivi si sarebbe innestata l’azione di elementi «localisti», che rivendicano un’identità hongkonghina separata da quella cinese. I media l’hanno già chiamata «rivoluzione delle polpette di pesce» per evocare quella «degli ombrelli» che riempì le cronache nell’autunno 2014. Tutto quello che succede a Hong Kong è ormai «rivoluzione», anche la rivolta di venditori abusivi di jyu daan, versione hongkonghina di quelle che dalle nostre parti conosciamo meglio nella variante giapponese: surimi.
Sei ore di guerriglia urbana, due colpi d’avvertimento sparati in aria dalla polizia, 48 feriti tra gli agenti, 54 arresti finora. Gli incidenti sono cominciati la sera di lunedì a Mong Kok, il quartiere di estrazione proletaria sulla penisola di Kowloon già teatro nel 2014 degli eventi più tesi durante il movimento degli ombrelli. Ma ai tempi non ci fu nulla di paragonabile a quanto si è visto l’altro giorno: barricate, lancio di bottiglie, di bidoni della spazzatura e di mattoni, agenti feriti – a terra – ulteriormente picchiati dai rivoltosi; dall’altra parte, l’uso di manganelli e spray urticanti, più i due colpi sparati in aria.
Tutto è cominciato intorno alle dieci di sera ora locali, quando la polizia ha cercato di sgombrare dei venditori di strada abusivi, presenza tradizionale per le vie di Mong Kok, specialmente durante il capodanno, ma sempre più nel mirino delle forze dell’ordine. La protesta dei piccoli commercianti si è trasformata in violenza verso le due di notte, ma la partecipazione agli scontri di parecchi giovani, molti dei quali indossavano le magliette di un movimento cosiddetto «localista» o «nativista», fanno pensare che sulla reazione spontanea degli abusivi si sia innestata una guerriglia di strada organizzata.
Nel composito movimento del 2014, i nativisti erano la componente di «destra»: più che l’ampliamento della democrazia, rivendicavano una identità hongkonghina distinta da quella cinese, fino ad esprimere razzismo verso immigrati e visitatori dalla Cina continentale.
Il gruppo finito sotto oggi i riflettori si chiama «Hong Kong Indigenous» e il suo portavoce – Edward Leung Tin-kei – è stato arrestato.
Ma chi sono questi «Indigenous»? Nel 2014 ricordiamo gruppi come Civic Passion e People Power che di fatto spaccarono il movimento degli ombrelli, non riconoscendo la rappresentanza degli studenti, rifiutando l’ipotesi di aprire un tavolo con il governo cittadino e boicottando la piazza stessa. Proprio a Mong Kok, dove ci fu uno dei principali blocchi stradali del movimento, impedivano ai gruppi pro-democrazia di esprimersi e di organizzare tutte quelle attività culturali che di solito connotano le occupazioni: dibattiti, comizi, proiezioni di film e così via. Tutto sempre nel nome della non rappresentanza.
Anche oggi gli «Indigenous» si definiscono sulla loro pagina Facebook come «un gruppo di cittadini senza nome di Hong Kong che si trovano in prima linea nelle proteste. Dal momento che i vecchi metodi di resistenza hanno fallito contro le autorità – aggiugono – non abbiamo altra scelta se non quella di distinguerci e di rompere la situazione di stallo». È curioso che, nonostante il rifiuto della rappresentanza, Edward Leung Tin-kei – l’uomo arrestato l’altra sera – avesse intenzione di candidarsi per un seggio al Consiglio Legislativo di Hong Kong tra tre settimane e pare proprio che gli incidenti di ieri siano accaduti perché nei pressi del mercato di strada sgombrato fosse in corso un suo comizio.
I localisti/nativisti hanno successo soprattutto tra i giovani nati negli anni Novanta e sono stati protagonisti anche delle aggressioni contro i cosiddetti «commercianti paralleli», cioè quei cinesi del continente che vanno a Hong Kong per comprare beni acquistabili solo lì e quindi rivenderli in patria a prezzo maggiorato: si va dagli iPhone 6, che uscirono a Hong Kong prima che in Cina, ai medicinali, passando per il latte in polvere. I transfrontalieri disturbano gli hongkonghini che improvvisamente non trovano più i prodotti sugli scaffali, oppure devono fare lunghe file per procacciarseli. Insomma, i movimenti nativisti cavalcano il fastidio della «gente per bene». Cavalcano anche l’angoscia diffusa nella città per la propria perdita di centralità come hub finanziario dell’Asia orientale e come porto: Shanghai, Shenzhen, sono presenze ingombranti.
La domanda ora è: stiamo assistendo a un salto di qualità violento rispetto al movimento di un anno e mezzo fa oppure semplicemente a un episodio di strada? È ancora difficile dirlo, sicuramente l’altra sera sulla protesta spontanea dei venditori di strada si è innestata l’azione dei gruppi organizzati, ma il fatto che gli incidenti fossero pre-organizzati è la versione ufficiale – solo una di quelle possibili – mentre diversi testimoni oculari hanno preferito sottolineare le violenze della polizia stessa.
Gli arresti continuano, la condanna unanime pure. Gli stessi venditori di strada intervistati dal South China Morning Post prendono le distanze dalle violenze e rivendicano solo il diritto di racimolare qualche soldo, specialmente durante il capodanno. L’ultima licenza fu concessa nel 1973, le autorità li considerano un ostacolo al traffico e un problema di igiene. Una ricerca ha rivelato che dai 50mila del 1974 sono scesi ai 6mila del 2014. Ciò nonostante restano una presenza caratteristica nella vita di strada hongkonghina e raccolgono solidarietà diffusa, anche se alcuni di loro sono illegali fin dagli anni Settanta e lavorano solo un paio di giorni l’anno, vendendo jyu daan per portare a casa l’equivalente di 5-600 euro. Per loro, «il movimento delle polpette di pesce» è quello che fanno dalla bancarella allo stomaco dell’acquirente.