Non serve scomodare Churchill per capire che, nonostante la vittoria schiacciante riportata dalla Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi nelle consultazioni politiche dell’8 novembre, le prossime elezioni del presidente del Myanmar restano un indovinello avvolto da un mistero all’interno di un enigma. Uno dei più famosi aforismi dell’insigne statista britannico può però aiutare a ricordare che spesso i problemi della vittoria sono più piacevoli di quelli della disfatta, ma non meno ardui. Parole che rendono alla perfezione la difficoltà del puzzle politico che la coraggiosa leader birmana e il suo partito si trovano a dover comporre all’indomani di un trionfo atteso da 25 anni e ora divenuto realtà. All’inizio della scorsa settimana un’onda arancione ha sommerso gli scranni del parlamento della capitale birmana Nay Pyi Daw nel momento in cui i deputati della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) hanno fatto il loro ingresso nella Pyithu Hluttaw e nella Amyotha Hluttaw, la Camera dei rappresentanti e la Camera delle nazionalità. Mostrando con fierezza la propria «divisa», i membri del partito che da sempre si oppone alla giunta militare hanno occupato 390 dei 491 seggi disponibili delle due Camere (su un totale di 664, un quarto dei quali riservati all’esercito in base alla legge costituzionale del 2008), mentre i delegati dell’Union solidarity and development party (Usdp), emanazione dei generali a cinque stelle, si sono dovuti accontentare di 42 poltrone.
Ma se in una democrazia matura un simile rapporto di forze non lascerebbe adito ad alcun dubbio sulla composizione della compagine chiamata a guidare il paese e sul nuovo presidente che da questa sarà scelto, in uno stato come il Myanmar, governato per oltre cinquant’anni da una rigida dittatura militare che solo nell’ultimo lustro ha iniziato ad allentare la sua ferrea presa sul potere, la situazione è molto differente.
Nonostante il dimissionario capo di stato, il generale Thein Sein, abbia concretamente favorito l’inizio di una transizione verso la democrazia, promettendo prima e indicendo poi libere elezioni per la prima volta dal 1990, e malgrado l’esito delle consultazioni abbia favorito oltre le più ragionevoli previsioni la Lnd, le divise verdi del Tatmadaw, ovvero le forze armate birmane, continuano a proiettare un’ombra che attenua non poco la vivacità dell’arancione avversario.
Oltre a riservare ai militari una quota significativa dei seggi parlamentari, infatti, la legge affida all’esercito il controllo di alcuni dei ministeri più importanti come quello dell’Interno, della Difesa e degli Affari di Frontiera. Cosicché, pur avendo ottenuto circa l’80 per cento delle poltrone, San Suu Kyi e i suoi alleati non potranno governare da soli. E anche nella scelta del nuovo capo dello stato dovranno muoversi con estrema cautela.
La legge costituzionale prevede che per l’elezione del presidente ciascun ramo del parlamento presenti un candidato. Ai due scelti se ne aggiunge un terzo indicato dai militari. A quel punto le camere votano, chi ottiene più preferenze vince e gli altri due sono nominati vice presidenti. Sulla carta quindi la Lnd potrebbe scegliere il suo rappresentante senza problemi. Nella realtà però le cose stanno molto diversamente.
In primo luogo perché la daw, come viene chiamata San Suu Kyi nel suo paese con un termine equivalente a quello di lady, è esclusa ex lege dalla competizione, avendo sposato un uomo di nazionalità britannica e avendo avuto da questo dei figli che non sono cittadini birmani. Ma soprattutto perché il futuro presidente non potrà essere un uomo o una donna inviso ai militari, con in quali dovrà invece avviare immediatamente un dialogo aperto e il più possibile costruttivo.
L’estremo riserbo mantenuto sui nomi dei possibili candidati indicano che Aung San Suu Kyi e il suo partito sono perfettamente consapevoli che il più piccolo errore, la minima incomprensione, potrebbe determinare una brusca battuta d’arresto nel processo di transizione verso la democrazia faticosamente avviato negli ultimi cinque anni. Uno sforzo che ha portato la figlia dell’eroe nazionale Aung San a scelte anche difficili e impopolari, come quella di non schierarsi in difesa della minoranza musulmana dei rohingya, bollati come immigrati bengalesi dalle autorità dello stato Rakhine e privati del diritto di partecipare alle elezioni di novembre. Decisione aspramente criticata dall’opinione pubblica birmana e internazionale e giustificata dalla Lnd come temporanea ritirata strategica su un singolo fronte, necessaria alla vittoria.
In effetti, negli ultimi anni l’azione politica di «Mamma Suu», come viene chiamata da alcuni dei suoi sostenitori, è sempre stata guidata dall’esigenza concreta di trovare un modo per confrontarsi con la giunta militare senza scatenare una reazione muscolare, come quella che portò i militari a disconoscere la vittoria ottenuta dalla Lega nazionale per la democrazia nelle elezioni del 1990.
Proprio per questo tra gli osservatori e gli esperti uno dei nomi che circola maggiormente come possibile candidato presidente è Tin Myo Win, medico personale di San Suu Kyi, suo fidato consigliere e iscritto alla Lnd.
Raggiunto al telefono dalla Bbc il chirurgo ha dichiarato di non essere interessato alla carica di presidente, ma la sua partecipazione ai colloqui riservati tenuti dalla daw con i generali nell’ultimo periodo fanno pensare che queste affermazioni possano essere solo di copertura.
Quello che è certo è che, anche se non diverrà direttamente capo dello stato, Aung San Suu Kyi giocherà un ruolo determinante nel lento cammino verso la democrazia che il suo paese ha iniziato, muovendosi dietro le quinte e orientando le scelte del suo partito come ha fatto fino ad oggi.
Come indubitabile è il fatto che il nuovo presidente, che sarà scelto entro aprile, anche se ancora manca una data certa per le elezioni, si troverà ad affrontare sfide enormi, le prime delle quali saranno porre fine ai conflitti con le numerose minoranze etniche che da decenni insanguinano il paese e tirare fuori la sua popolazione dal baratro della povertà. Il tutto facendo al tempo stesso i conti con il potere che i militari continuano a esercitare in quello che fino a pochi mesi fa consideravano il proprio paese.
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*Paolo Tosatti si è laureato in Scienza Politiche all’università "La Sapienza" di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto Internazionale. Ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso e successivamente è diventato giornalista professionista. Si occupa di Paesi asiatici dal 2005.