Le banche centrali delle principali economie mondiali hanno deciso di abbassare i tassi d’interesse sui depositi sotto lo zero. La settimana scorsa anche la Bank of Japan ha deciso di intraprendere questa strada. È l’ultima sfida del governatore Haruhiko Kuroda (e con lui del primo ministro giapponese Shinzo Abe) per far ripartire l’economia giapponese, ma che «flirta» con una possibile nuova recessione globale. Non sarà il «whatever it takes» pronunciato da Mario Draghi per rimarcare l’impegno della Banca centrale europea a far uscire la Ue dalla crisi. La decisione della Banca del Giappone di portare in territorio negativo, a -0,1 per cento, il tasso sui depositi ricalca però il «non molleremo» con cui il numero uno dell’Eurotower ha ribadito gli sforzi per portare l’inflazione al target del 2 per cento.
L’economia giapponese continua a soffrire e le frecce nell’arco del capo del governo di Tokyo, Shinzo Abe, e del governatore della Bank of Japan (BoJ), Haruhiko Kuroda, per far uscire il paese del Sol Levante da vent’anni di stagnazione sono sempre di meno. La congiuntura sfavorevole di questi mesi — il prezzo del petrolio che continua a scendere e il rallentamento della Cina — non aiuta, anzi, rischia di affossare la politica economica aggressiva — la cosiddetta «Abenomics» — che Tokyo porta avanti dalla fine del 2012 con risultati alterni.
L’idea
L’annuncio del 29 gennaio scorso sul taglio degli interessi in negativo da parte del governatore Kuroda ha colto i mercati di sorpresa, ma ha ripagato le aspettative di Tokyo, facendo chiudere l’indice Nikkei in rialzo del 2,8 per cento con lo yen in discesa.
Dal 16 febbraio prossimo, quando entrerà in vigore la misura, le banche commerciali che depositeranno nuovi fondi presso la BoJ dovranno pagare per mantenere i loro soldi fermi nelle casse della banca centrale.
La mossa, specifica l’Economist, non è retroattiva, quindi non va a toccare le riserve già disponibili — che ammontano alla cifra record di 220mila miliardi di yen (pari a 1500 miliardi di euro) — ma quelle che entreranno quest’anno. Secondo la testata britannica, dovrebbero entrare almeno 80mila miliardi di yen (circa 610 miliardi di euro) anche in conseguenza del quantitative easing (Qe) — la stampa di nuova moneta e la sua immissione nell’economia nazionale — che la Boj porta avanti da tre anni a questa parte.
Questo dovrebbe in teoria spingere le banche a prestare più soldi alle aziende, che di conseguenza dovrebbero investire di più, assumere di più e contribuire a spingere in su il tasso di inflazione, oggi di poco sopra lo zero a causa del continuo calo del prezzo del petrolio.
Inoltre, seguendo uno schema noto, con il petrolio in picchiata, lo yen si apprezza penalizzando gli esportatori giapponesi, già interessati dal rallentamento dell’economia cinese.
Ma la mossa di Kuroda ha un altro risvolto. Come spiegava Frederic Neumann, co-direttore del dipartimento ricerca sull’Asia della Hsbc dalle colonne del Nikkei Asian Review, l’abbassamento dei tassi di interesse potrebbe accelerare il flusso di capitali in uscita dal Giappone. Destinazioni classiche a parte — bond Usa — salgono nelle quotazioni i vicini asiatici — in particolare zona Asean, Vietnam e Indonesia su tutti — e i paesi in via di sviluppo in Asia. Il momento è propizio, soprattutto dopo che nel 2015, le aziende giapponesi hanno approvato fusioni e acquisizioni per un valore totale di quasi 80 miliardi di euro.
Il modello svizzero
La BoJ non è sola in questa strategia che ha tra gli obiettivi quello di sostenere l’inflazione, lontana anche in questo caso dall’obiettivo del 2 per cento. Si sono già mossi in tale direzione la Svizzera, la Svezia e la Danimarca.
La stessa Bce lo scorso dicembre aveva abbassato il tasso sui depositi da -0,2 per cento a -0,3 per cento. La mossa del governatore, Haruhiko Kuroda, potrebbe ora spingere la presidente della Federal Reserve statunitense, Janet Yellen, a dire parole chiare sul fatto che non ci sarà un ulteriore aumento del tassi di interesse Usa dopo quello di dicembre, il primo dal 2006, ma con possibili ripercussioni sulla Cina e sugli emergenti.
Un dollaro remunerativo potrebbe infatti incentivare la fuga di capitali da questi paesi. Già in estate d’altra parte la svalutazione dello yuan decisa dalla People’s bank of China aveva influito sulle scelte della Fed, spingendola a rinviare l’aumento. Le banche centrali, sottolineano alcuni analisti, continuano a esprimere preoccupazione per la vulnerabilità dell’economia globale. In attesa di sapere se a marzo Draghi e la Bce rafforzeranno il programma di Qe, si guarda anche alle decisioni della Cina.
Credit: wsj.com
Per sostenere l’economia in fase di rallentamento (il +6,9 per cento del 2015 è il tasso di crescita più basso dal 1990), la PboC si è mossa a colpi di tagli dei tassi di interesse e del coefficiente di riserva obbligatorio per gli istituti di credito. Di recente però Pechino, come sottolineato dal capo economista della Banca centrale, Ma Jun, sta puntando su strade alternative, con iniezioni di liquidità nel sistema. Si è ancora quindi nel campo delle misure “convenzionali”, tant’è che la stessa banca centrale ha più volte rimarcato che i propri interventi non possono essere definiti operazioni di alleggerimento quantitativo.
La ricaduta
È bastata appena una settimana però per far ricredere i mercati. Giovedì scorso le paure per l’apprezzamento dello yen si sono fatte più concrete e l’indice Nikkei ha perso lo 0,9 per cento chiudendo al prezzo più basso dallo scorso 28 gennaio. Il giorno dopo era arrivata la decisione a sorpresa della Boj — peraltro divisiva all’interno del board, con quattro consiglieri su nove opposti alla misura — che, intanto, ha annunciato «nessun limite» a nuove iniezioni di denaro.
Credit: Reuters/Financial Times
A pesare sull’economia nipponica ci sono poi le sofferenze di gruppi industriali come Panasonic e Hitachi hanno tagliato le previsioni di profitto per il prossimo anno, mentre continuano i problemi finanziari per Sharp che ora cerca un acquirente — probabilmente straniero: sull’azienda giapponese, che qualche commentatore ha recentemente definito una «zombie company», è in vantaggio la taiwanese Foxconn.
I conglomerati dell’elettronica e degli elettrodomestici di consumo sono al centro dell’attenzione del governo giapponese dopo il clamore suscitato dai bilanci truccati di Toshiba. E come dimostra il caso di Sony, potrebbero essere proprio questi — in particolare le loro divisioni finanziarie che controllano ampi portafogli di debito pubblico giapponese — a beneficiare della mossa della Banca centrale.
Come scrive l’ex analista finanziario John Rubino sul blog del CFA Institute, il rischio che i tassi negativi comportano è che la bolla dei bond di stato esploda e che i capitali «rilasciati» vadano reinvestiti in capitali privati, in azioni di «multinazionali in grado di operare a livello globale, di alzare sufficientemente i prezzi, coprire i costi e aumentare i propri dividendi». A riprova di questa teoria David Fickling di Bloomberg illustra il legame tra le buone performance borsistiche della divisione finanziaria di Sony negli ultimi cinque anni — in controtendenza con le perdite del settore dell’elettronica — e l’abbassamento dei tassi di interesse. Lo stesso schema, aggiunge l’analista, si può notare nelle performance di compagnie assicurative come Swiss Re e Swiss Life in seguito all’abbassamento dei tassi di interesse da parte della banca centrale elvetica.
Anche la Bce, come ha sottolineato sempre giovedì Draghi, non si arrenderà. Ma, sottolinea il Guardian, la politica dei tassi d’interesse negativi potrebbe anche spingere le banche a investimenti rischiosi attratti da rendimenti più sostanziosi. I tassi negativi sono una «misura non convenzionale» di politica monetaria al pari dello stesso Qe e dell’acquisto di titoli da parte delle banche centrali.
Mettendo insieme i pezzi, un aumento degli investimenti globali in equities a danno dei debiti sovrani, potrebbe essere il prologo di una nuova recessione globale.
Per usare le parole del giornalista finanziario, Marcello Bussi, su Milano Finanza: «Portare sotto zero i tassi sui depositi è il segnale che si sta raschiando il fondo del barile». Ossia si agisce quando tutte le altre munizioni sembrano essere finite.
[Foto credit: asia.nikkei.com]