Mentre il premier Li Keqiang annuncia "l’urbanizzazione incentrata sull’uomo", le autorità cinesi decidono di abbassare la caparra sui mutui nelle città minori. Dietro a questi segnali, si intravede una idea di Cina che, attraverso la riorganizzazione dello spazio, punta a risolvere problemi economici e sociali. Da oggi, i cinesi che vogliono comprare una nuova casa devono lasciare solo il 20 percento di caparra sul mutuo e non più il 25. Sembra uno di quei prosaici lanci economici d’agenzia di due righe, ma dare alla fascia più bassa della popolazione cinese più possibilità di comprare casa è del tutto in linea con l’idea di urbanizzazione che ha in mente Pechino per rilanciare la crescita.
“Questa è una politica di grande attualità”, dice al South China Morning Post Huang Yu, vice-presidente esecutivo della China Index Academy, un istituto di ricerca di proprietà. “Può incoraggiare i lavoratori migranti, che tengono sempre d’occhio il budget, ad acquistare una casa quando tornano nei luoghi d’origine durante le vacanze del capodanno lunare.” E infatti, la misura non riguarda le abitazioni nelle città di primo livello – come Pechino, Shanghai, Shenzhen e Guangzhou – bensì gli stock invenduti nelle muncipalità più piccole. Nel prossimo piano quinquennale, il destocking del parco immobiliare è uno dei cinque obiettivi principali che si è posta la leadership di Pechino.
Nel 2014 erano 274 milioni, il 20 per cento della popolazione cinese. Sono i mingong, i migranti rurali che negli ultimi trent’anni tanto hanno dato al boom del Dragone ma poco hanno avuto in cambio. Certo, le loro condizioni sono migliorate, sono usciti in gran parte anche loro dalla soglia di povertà, ma continuano a essere una popolazione di serie B, perché quando arrivano nelle città dove emigrano non hanno gli stessi diritti e servizi dei residenti. Non hanno infatti l’hukou o huji, cioè la “residenza obbligatoria” che viene data a ogni famiglia cinese e che consente ai suoi membri di accedere a servizi essenziali – come istruzione e sanità – solo nel luogo dove sono nati.
Ora il premier Li Keqiang, che da tempo parla di “urbanizzazione incentrata sull’uomo”, vuole integrare di più i migranti nelle città dove di fatto già vivono e lavorano. Promette così di concedere ad almeno 100 milioni tra loro l’hukou entro il 2020.
Ma perché la Cina non elimina semplicemente l’hukou?
Trent’anni fa, il sistema era del tutto funzionale allo sviluppo della “fabbrica del mondo”. I terreni venivano requisiti per costruire fabbriche (prima) e dare il via al boom immobiliare (subito dopo). Nella fase dell’accumulazione originaria, i contadini rimasti senza terra costituivano un enorme esercito industriale di riserva, manodopera che si trasferiva nei centri maggiori e che – anche e soprattutto per via dell’assenza di diritti e servizi base – aveva poco potere contrattuale: basso costo del lavoro, boom manifatturiero legato all’export.
Oggi, la Cina cerca di ribaltare il modello e punta su servizi ad alto valore aggiunto e consumi interni: non serve l’operaio massa che più massa non si può, serve il ceto medio predisposto alla spesa voluttuaria. Ma l’hukou – che suddivide i cinesi in cittadini di serie A e di serie B – in qualche modo permane, anche se un po’ ovunque si cerca di riformarlo.
Perché? Il problema è quello delle grandi migrazioni umane, di cui si intuisce la natura caotica durante questi giorni di Chunjie, il capodanno lunare. Si teme che se ogni cinese potesse andare dove gli pare portandosi dietro i diritti di base, le campagne si svuoterebbero e le megalopoli dell’est diventerebbero ancora più megalopoli, impossibili da gestire. Il sistema impazzirebbe.
Così, l’urbanizzazione “incentrata sull’uomo” che ha in mente il premier Li non va intesa come “incentrata sulla libertà individuale dell’uomo”, bensì come “incentrata sul buon governo dell’uomo”. Prevede che i migranti rurali siano integrati, sì, nelle città, ma non nelle maggiori megalopoli. A Pechino, Shanghai, Guangzhou, Chongqing e le altre grandi potranno ottenere la residenza solo i “laureati, i lavoratori qualificati e gli immigrati di ritorno”. Insomma, entrano i più bravi. Si vuole cioè fare delle principali aree urbane dei poli di eccellenza, mentre il paludoso proletariato a metà del guado nella sua lunga marcia verso il ceto medio viene instradato verso una miriade di località-cuscinetto: una costellazione di città sostenibili, più piccole, a tiro di ferrovia veloce da quelle più grandi; dove il mingong di recente inurbamento deve lasciare solo il 20 per cento di caparra per comprare casa.
I suoi figli, magari, prenderanno quei treni per andare a studiare alla Tsinghua o alla Fudan e, se saranno bravi, si aggiudicheranno il diritto a diventare cittadini integrati nella metropoli.
La città cinese continua nei secoli a vivere una tensione tra la sua natura di “casa dell’imperatore” – il modello di organizzazione dall’alto che replica all’infinito la Città Proibita di Pechino – spontanea aggregazione di genti – come tutte le città del mondo – e guarnigione militare, messa lì a preservare l’ordine. Lo si vede camminando per la capitale. I grandi spazi disegnati di fronte agli edifici iconici di nuova costruzione, come il palazzo della CCTV, vengono immediatamente transennati per veicolare i flussi umani. Per tacere di piazza Tian’anmen, la gigantesca piazza che piazza non è, nel senso di luogo dove si è liberi di deambulare. Quindi, perché si crea il grande spazio se poi non lo si mette a disposizione del cittadino? Perché la grandezza serve a celebrare il potere, non a far incontrare. Continua la tensione tra città dell’imperatore, guarnigione militare e libero spostarsi della moltitudine.
L’ingegneria urbana e sociale implicita nel nuovo progetto annunciato da Li dovrebbe risolvere anche un problema molto pratico: quello delle ghost city nate dalla speculazione immobiliare. Si calcola che in Cina ci siano tra i 65 milioni e gli 80 milioni di appartamenti vuoti e città come Ordos, in Mongolia interna, sono ormai divenute sinonimo di gui shi, città fantasma. Sono in genere centri nati dall’esigenza dei potentati locali (funzionari e businessmen variamente intrecciati e collusi) di reinvestire nell’immobiliare quanto guadagnato con l’industria. Oppure nascono molto semplicemente dalla vendita di terreni pubblici ai palazzinari, per riempire le casse di governi locali cronicamente in rosso. Ma non avendo la capacità d’attrazione delle grandi megalopoli o sorgendo in aree a bassa densità di popolazione, restano desolatamente vuote. Ora – così si spera – potrebbero essere riempite dai vecchi mingong diventati nuovo ceto medio.
Si comincia così a intravedere la geografia della Cina del futuro, almeno quella che c’è nella testa dei leader: poche megacittà e tante città “a misura d’uomo”, quelle che piacciono al premier Li. Immaginiamo una ragnatela di infrastrutture veloci alle cui giunture ci sono le megalopoli e una miriade di città-giardino. Gli spazi liberi nelle maglie della tela sono i terreni ancora destinati all’agricoltura, che deve mantenere l’enorme piccola borghesia urbanizzata e pendolare, grazie a grandi fattorie all’avanguardia, a bassa intensità di lavoro e alta intensità tecnologica. Se la tela del ragno ha proprietà bio-meccaniche eccezionali – elasticità, resistenza – si spera che anche la nuova Cina riparta da questa struttura forte per il suo prossimo balzo in avanti.
Questo progetto è la storia che probabilmente ci terrà impegnati nei prossimi decenni.