Nuovo capitolo dell’urbanizzazione cinese. La città più popolosa decide di porre a 25 milioni il limite dei propri abitanti. L’idea è quella di attirare i bravi e di lasciare fuori gli scarsi, modello del tutto in linea con "l’urbanizzazione a misura d’uomo" a cui si appella il premier Li Keqiang. Basta, siamo troppi, fermi lì. L’ordine arriva da Shanghai, che si contende con Chongqing il titolo di città più popolosa della Cina. Dipende un po’ come si conta. Se si considera la municipalità – cioè la città allargata – vince la megalopoli tentacolare della Cina centrale: circa 30 milioni di abitanti. Se si guarda invece all’area urbana, cioè la città strettamente intesa, ecco che trionfa Shanghai, sinonimo di modernità simile a un puntaspilli per via di tutti i suoi grattacieli: oltre 24 milioni (di persone, non di grattacieli).
L’amministrazione locale ha deciso ora di porre il tetto a 25 milioni, un numero che a occhio potrebbe essere già stato raggiunto e abbondantemente superato. Intende pertanto esercitare uno stretto controllo sulla crescita della popolazione cittadina “per garantire la sicurezza e controllare più efficacemente il mercato immobiliare”. Tra paranoie securitarie (globali) e prezzi immobiliari inaccessibili, sono due argomenti di sicuro appeal.
“Un mix di misure rigorose saranno adottate per frenare l’aumento della popolazione”, ha detto il sindaco di Shanghai Yang Xiong, nel presentare al locale parlamentino il 13esimo piano quinquennale. Senza però spiegare quali. Esistono quindi molti dubbi sul fatto che una semplice misura amministrativa possa contenere l’afflusso di gente che si reca nella città più sviluppata della Cina a cercare fortuna.
Nella versione ufficiale, il controllo della popolazione sarebbe mirato a fornire “una migliore pianificazione urbana, una ragionevole distribuzione delle risorse pubbliche e una gestione efficiente della vita sociale”. Ma è forte il sospetto che Shanghai voglia fare selezione all’ingresso, come dicono del resto gli stessi esperti del governo: basta stabilire criteri qualitativi nella concessione dell’hukou – la residenza che, sola, dà diritto ai servizi essenziali – ed ecco che i bravi, belli ed efficienti entrano, mentre i cattivi, brutti e inefficienti restano fuori.
Teoricamente. Le città cinesi sono da anni piene di migranti rurali privi di hukou, quindi di diritti, ma totalmente funzionali a svolgere i “lavori sporchi” dalla città.
Un professore dell’Accademia delle Scienze Sociali che si chiamaYang Xiong come il sindaco (nessun legame), dice al South China Morning Post di Hong Kong che “la triste realtà è che Shanghai ha uno spazio limitato per i migranti”, circa 100 chilometri quadrati. L’idea di claustrofobica densità umana si nutre anche del ricordo di quanto successe durante i festeggiamenti del Capodanno 2014, quando 36 persone morirono per un’ondata di panico collettivo che attraversò la calca umana che si affollava lungo il Bund, il famoso lungofiume cittadino.
Ma sotto sotto ci sono soprattutto problemi di bilancio: il professor Yang dice che Shanghai ha speso 20 miliardi di yuan (quasi 3 miliordi di Euro) per costruire nuove scuole per i figli dei lavoratori migranti, costo coperto dai contribuenti locali, che come tutte le piccole borghesie globali guardano con orrore alle tasse. C’è aria di lotta di classe in Cina e come nel Millennium People ballardiano sono le sciure con la borsetta di Gucci che strillano più forte. Peccato che i migranti rurali si siano fatti carico del maggior peso del boom cinese, cioè anche delle loro borsette.
Per risolvere problemi di questo genere, qualche anno fa era stato lanciata la parola d’ordine della chengzhenhua, “urbanizzazione sostenibile”, che avrebbe implicato la fondazione di decine di nuove città di media grandezza, a misura d’uomo, sostenibili e tecnologiche, per decomprimere le megalopoli cresciute vertiginosamente e disordinatamente. Ma ultimamente non se ne sente parlare troppo e, soprattutto, la moltitudine continua a dirigersi verso Shanghai, Pechino, Guangzhou e le altre grandi. Per un motivo piuttosto evidente: lavoro e opportunità sono lì.
Sarà forse per uscire da questo circolo vizioso che domenica il premier cinese Li Keqiang ha sollecitato tutti ad adoperarsi per una “urbanizzazione incentrata sull’uomo”, che migliori i mezzi di sussistenza delle persone e rilanci l’economia.
“Il più grande potenziale di sviluppo della Cina sta nell’urbanizzazione”, ha detto dopo una riunione esecutiva del Consiglio di Stato, il governo cinese. Sembra di sentire i suoi stessi discorsi di tre anni fa.
Anche Li ha echeggiato la ricetta di Shanghai: l’urbanizzazione promuove gli investimenti e i consumi, consente uno sviluppo coordinato tra città e campagna e, quindi, il governo renderà più facile ai migranti rurali l’ottenimento dell’hukou urbano – recita l’agenzia Nuova Cina – “con l’eccezione di poche megalopoli”. Lì, potranno ottenerla solo “laureati, lavoratori qualificati e immigrati di ritorno”, noti come haigui, “tartarughe di mare”, che affollano le università straniere e poi tornano a casa per cercare un lavoro all’altezza delle proprie aspettative.
Tutti gli altri stanno fuori. Per loro ci sono le cosiddette “aree pilota per l’urbanizzazione di nuovo tipo”, cioè città di medie e piccole dimensioni, che superano i 100mila abitanti. Si istituzionalizza così – almeno nelle intenzioni – una Cina duale: poli d’eccellenza nelle metropoli e una rete di cittadelle che fungono da camere di decompressione tutt’attorno. Alcuni economisti di ispirazione neoliberista, quelli della “mano invisibile del mercato”, criticano inorriditi l’ingegneria urbana (e umana) cinese, dicendo che la soluzione migliore sarebbe quella di lasciare che gli immigrati vadano dove pare loro, abolendo l’hukou; sarà poi la legge economica della domanda e dell’offerta a tenerli lì o a rispedirli da dove sono venuti, a sancire chi è abbastanza competitivo per la città e chi invece è meglio che se ne torni a coltivare l’orticello. Eventuali tragedie umane e crisi malthusiane che si dovessero verificare nel frattempo non fanno parte della big picture.
Tra dirigismo del governo cinese e deregulation selvaggia, sembra mancare una terza ipotesi: dare più welfare a tutti.