In Nepal la ricostruzione post terremoto è bloccata da dissidi interni tra le principali forze politiche, in lotta per aggiudicarsi la direzione della National Reconstruction Authority, che gestirà oltre 4 miliardi di dollari promessi dai grandi donatori internazionali (India e Cina in testa). Intanto, mentre l’inverno è alle porte, la popolazione fa esercizio di resilienza. Ovvero, si arrangia.A oltre sette mesi dal terremoto del 25 aprile 2015 – 7,8 gradi sulla scala Richter che hanno sconquassato il Nepal uccidendo quasi novemila persone e distruggendo intorno al mezzo milione di abitazioni – la parola sulla bocca di diversi commentatori è «resilienza». Va molto di moda, di questi tempi, la resilienza: termine preso in prestito dalla metallurgia, applicato alla condizione umana indica la capacità di non soccombere alle avversità, reagire positivamente a un trauma o a una catastrofe. E i nepalesi, di fronte a un sisma che con migliaia di vite e centinaia di migliaia di case ha spazzato via metà dei 19 miliardi di dollari del Pil nazionale, per la gioia della psico-geopolitica si stanno dimostrando cinture nere di resilienza, come ci piace chiamarla ora.
Un’attitudine che ha permesso di accogliere in modo abbastanza scomposto, nelle settimane immediatamente successive al terremoto, l’eccezionale solidarietà internazionale di stati, organizzazioni transnazionali, ong-bulldozzer pronte a fare del bene. Tantissimo bene in forma di aiuti aviotrasportati e diligentemente pubblicizzati nella tradizionale «gara di beneficenza» che si corre in ogni zona remota del pianeta suo malgrado colpita dal cataclisma. Cibi avariati compresi, nel caso del riso di New Delhi (5000 tonnellate) e del World Food Program (514 tonnellate), rispedito al mittente con raccomandazione di distruggerlo, così che non vada ad «aiutare» qualcun’altro.
Con Cina e India a fare da aprifila – giocando al Monopoli del soft-power ad alta quota non senza spettacolarizzare le operazioni di salvataggio e consegna di aiuti, in particolare New Delhi – tutti hanno fatto avere il proprio contributo a Kathmandu, addirittura ingolfando temporaneamente l’aeroporto della capitale, trovando un’amministrazione locale inizialmente impreparata, finché l’esercito nepalese – in coordinamento col governo centrale – è riuscito a ordinare e indirizzare al meglio la solidarietà internazionale.
Ma a fine novembre 2015, le reali operazioni di ricostruzione sono bloccate, e le macerie riordinate dai resilienti cittadini nepalesi rimangono sul territorio a macchia di leopardo. Più ordinate a Kathmandu – nascoste, quando possibile, lontano dalla vista dei turisti, tranne quando simboleggiano la devastazione della piazza simbolo della capitale, Durbar Square – e a Bhaktapur, l’antica capitale del regno Malla protetta dall’Unesco, dove i templi e i palazzi della monarchia ancora in piedi si alternano a muri puntellati con assi di legno, transennati per l’incolumità dei passanti, e a desolanti gradoni di pietra protetti da statue leonine. Prima del 25 aprile conducevano all’entrata di altre torri e altri templi, come da pannello illustrativo. Ora, portano al nulla.
Diversa la situazione nel distretto di Sindhupalchowk, tra i più colpiti dalle onde sismiche e – in mancanza di mete turistiche di rilievo – dove la solidarietà internazionale è arrivata più tardi.
La via principale che attraversa Chautara, posizionata sul crinale di una montagna che qui, a 1600m di altezza, chiamano «collina», reca ancora tutti i segni della distruzione: interi palazzi accartocciati su se stessi, ridotti a scheletri occupati da resilienti lavoratori locali che ancora demoliscono l’irrecuperabile e iniziano una ricostruzione spontanea. Qua e là, tende lasciate – e brandizzate – dall’esercito cinese, dall’Unicef, dalla Croce Rossa Internazionale, utilizzate ora per conservare la legna per l’inverno o, come nel caso di Radio Sindhu, continuare a lavorare in attesa che la nuova sede dell’emittente locale in lingua nepali sia ultimata, grazie ai fondi «dei giapponesi».
Ratna Shrestha e Dil Maya, direttori di Radio Sindu, ricordando i giorni del terremoto, parlano controvoglia. I primi aiuti – cibo, lamiere ondulate, radioline – sono arrivati dopo tre settimane, depositati a Chautara senza che nessuno dall’amministrazione locale avesse pensato a come avvertire le decine di villaggi circostanti. Compito di cui si è fatto carico Radio Sindhu, con un ponte radio tra gli abitanti delle colline e le organizzazioni che avevano fatto del campo da calcio cittadino la propria base temporanea, grazie al quale gli abitanti dei villaggi venivano avvertiti dell’arrivo di aiuti a Chautara. E in gruppi, e per ore di cammino, scendevano in città a caricarsi la solidarietà sulle spalle. Dalla tenda Unicef lasciata in dote a Radio Sindhu, proprio sopra il campo da calcio in terra battuta, si vedono ancora i segni delle tende delle ong che, da settimane, se ne sono andate.
Finita l’emergenza immediatamente post terremoto, l’esercito e le delegazioni di cooperazione eccezionale – come da direttive di Kathmandu – hanno lasciato il distretto.
A Chautara, come nei villaggi circostanti, chi ha perso un familiare nel terremoto ha ricevuto un primo aiuto di 15mila rupie nepalesi (intorno a 150 euro). Chi ha perso la casa, la promessa di 200mila rupie per ricostruirla obbligatoriamente secondo le indicazioni anti-sismiche redatte dal governo centrale, che ha stilato un elenco di 20 modelli abitativi tra cui scegliere.
Intorno a Chautara, le abitazioni di mattoni recuperati dalle macerie e lamiera sembrano tutt’altro che temporanee. Chi le abita sa che il governo continua ad annunciare che «presto» la macchina statale della ricostruzione si muoverà. Ma sa anche che «presto», per la politica nepalese, è un lasso di tempo tendente all’infinito.
Il 25 giugno, in una conferenza dei grandi donatori internazionali tenutasi a Kathmandu, il Nepal aveva incassato promesse di fondi per la ricostruzione pari a 4,1 miliardi di dollari (su 7,7 richiesti). New Delhi, con un miliardo, e Pechino, con 500 milioni, sono in testa nella classifica della solidarietà straniera, ben consci che investire nella ripresa di un paese schiacciato tra loro equivale a un ritorno economico assicurato, sul lungo termine. Qualsiasi operazione infrastrutturale in Nepal non può prescindere da materiali, logistica, ingegneria e manodopera di Cina e India.
I fondi dovevano essere gestiti dalla National Reconstruction Authority (Nra), fondata ad hoc durante il governo pre costituzione guidato dal Nepali Congress, che ne aveva nominato anche il presidente: Govinda Raj Pokharel, già vice direttore della National Planning Commission, un «tecnico» stimato e vicino all’Nc.
Ma per dare pieni poteri alla Nra occorreva far passare in parlamento una legge apposita, puntualmente arenatasi in mezzo alla lotta intestina tra le maggiori forze politiche. Con l’adozione della Costituzione il 20 settembre e la formazione del primo governo costituzionale, guidato da Khadga Prasad Oli e sostenuto da una coalizione comunista – Communist party of Nepal (Unified Marxist Leninist), più diversi partiti minori compreso lo United Communist party of Nepal (Maoist) – tutte le cariche amministrative sono state automaticamente azzerate, compresa la direzione della Nra. Che da allora rimane senza poteri, senza un direttore, in attesa che ci si accordi su chi dovrà guidare l’organo che detterà tempi, modi, progetti, appalti del Nepal che verrà. Una posizione che i comunisti vorrebbero controllare per interposto tecnico, decidendo di non riconfermare Pokharel e, recentemente, valutando la centralizzazione delle operazioni nelle mani dell’esecutivo.
Fuori dai palazzi del potere, nel bel mezzo di un embargo informale di benzina e gas imposto dall’India a sostegno delle proteste della comunità Madeshi nel sud del Nepal (di cui parleremo meglio in seguito), l’inverno è alle porte, la ricostruzione un miraggio, la crisi umanitaria una minaccia concreta. Rimane solo la «resilienza», come si dice. E suona davvero male.
[Pubblicato in versione ridotta su il manifesto; foto credit: Matteo Miavaldi]