Myanmar – Dopo 25 anni le prime elezioni democratiche

In by Gabriele Battaglia

Cinque lustri. Un quarto di secolo. O più semplicemente 25 anni. Come lo si voglia indicare non conta: se si parla dell’attesa per vedersi riconosciuta la possibilità di eleggere liberamente i propri governanti è un periodo di tempo estremamente lungo. Eppure tanto ha dovuto aspettare il popolo del Myanmar, che domenica prossima si recherà alle urne per quello che resterà nei libri di storia birmana come il primo confronto elettorale realmente democratico dal 1990 ad oggi. Trentatre milioni e mezzo di votanti, su una popolazione complessiva di poco più di 53 milioni divisa in oltre 130 etnie, saranno chiamati a scegliere tra 6.100 candidati di oltre 90 partiti differenti. I seggi in ballo sono 1.171: 330 per la Pyidaungsu Hluttaw, la camera bassa del Parlamento; 168 per la Amyotha Hluttaw, la camera alta; 644 per le assemblee locali delle 7 regioni, dei 7 Stati e delle 7 zone amministrative speciali in cui è diviso il territorio birmano; gli ultimi 29 per i Parlamenti regionali o statali per le minoranze etniche.

In aggiunta a ciò, una volta nominati, i membri del Parlamento centrale dovranno indicare chi sarà il nuovo capo dello Stato, anche se, in base al calendario elettorale, la scelta non avverrà prima di marzo 2016.

I principali sfidanti sono l’Union solidarity and development party (Usdp), partito di governo che indossa la divisa dell’esercito sotto i panni civili, e la National legue for democracy (Nld) del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, la daw (“Signora” in lingua birmana) figlia dell’eroe nazionale Aung San, divenuta famosa in tutto il mondo per la sua instancabile lotta in favore dei diritti del suo popolo contro la dittatura dei generali.

I rivali sono gli stessi che si sono affrontati nelle elezioni del 1990, le ultime democratiche della storia del Paese, stravinte dal partito di Suu Kyi ma disconosciute dalla giunta militare. Ora a 25 anni di distanza le due forze tornano a confrontarsi, mentre in tutto il Paese gli elettori sono divisi tra la richiesta di “elezioni libere e regolari”, capaci di determinare un cambiamento radicale a lungo invocato, e i timori di una nuova ondata repressiva che potrebbe scatenarsi se i graduati a cinque stelle vedessero effettivamente vacillare il proprio potere.

In base alla legge birmana, un quarto dei seggi di ciascun ramo del Parlamento è riservato agli uomini in uniforme, come pure le poltrone dei ministeri dell’Interno, della Difesa e degli Affari di frontiera. I generali inoltre hanno un diritto di veto sulla riforma costituzionale. E proprio la costituzione prevede che nessun cittadino sposato o con figli stranieri possa diventare presidente. Una norma introdotta per bloccare l’eventuale ascesa di Aung San Suu Kyi, il cui defunto marito era di nazionalità britannica, come i figli.

Certamente questi ostacoli renderanno difficile per la Nld ottenere una maggioranza schiacciante
. Senza contare che il primo partito di opposizione, oltre a schivare i bastoni che i militari gli hanno messo tra le ruote, sarà anche chiamato ad affrontare un altro temibile avversario, il crescente nazionalismo buddista, sempre più diffuso in un Paese in cui l’80-90 per cento della popolazione è fedele agli insegnamenti di “Colui che si è risvegliato”.

Legata a una tradizione familiare orientata verso il dialogo tra le diverse etnie presenti nel Paese per costruire un’identità birmana, la daw ha inviato più volte gli elettori a non lasciarsi manipolare da ideologie che utilizzano l’odio religioso per fini secondari. “Dovete essere pazienti con quei soggetti che cercano di creare ostilità tra le persone – ha dichiarato Suu Kyi secondo quanto riportato dai media locali -. Il loro scopo è destabilizzare le elezioni, che invece devono svolgersi pacificamente”.

Esternazioni dirette contro il tentativo dei militari di sfruttare a proprio vantaggio l’ondata di nazionalismo religioso che già nel 2012 ha portato agli scontri tra buddisti e membri del gruppo etnico rohingya, di religione musulmana, nello Stato Rakhine, nel sud ovest del Paese.

Tre anni fa le violenze divampate a seguito dello stupro e dell’omicidio di una ragazza buddista di cui sono stati accusati tre giovani rohingya hanno lasciato sul campo quasi 30 morti e circa 90mila sfollati, che hanno cercato di raggiungere Paesi confinanti per sfuggire a un’esistenza fatta di vessazioni ripetutamente denunciate da organizzazioni e gruppi per la difesa dei diritti umani, in particolare Amnesty International.

Eppure, nonostante i tentativi di richiamare l’attenzione della comunità internazionale su questa tragedia, la “caccia al musulmano” portata avanti dal Ma Ba Tha, o Associazione patriottica del Myanmar, e dal gruppo islamofobo Movimento 969 (che conta tra le sue fila anche Ashin Wirathu, estremista arrestato nel 2003 per incitamento all’odio e tornato in libertà nel 2010) ha sortito gli effetti sperati dai suoi sostenitori. Nonostante, infatti, i fedeli dell’Islam rappresentino tra il 4 e il 5 per cento delle popolazione birmana, nessun candidato musulmano è presente nelle liste della Uspd o della Nld.

Inoltre a più di un milione di rohingya, bollati come immigrati bengalesi dalle autorità dello Stato Rakhine, è stato negato il diritto di partecipare alle elezioni.

Alcuni candidati della Lega nazionale per la democrazia hanno cercato di giustificare questa esclusione con ragioni di opportunità politica, spiegando che Aung San Suu Kyi e il suo entourage potranno affrontare adeguatamente la questione delle minoranze etniche una volta prese le redini del governo, cosa possibile solo ottenendo una vittoria schiacciante. La questione dei rohingya, però, getta un’ombra sulla figura della daw, accusata da una parte dell’opinione pubblica internazionale e interna di non aver preso una posizione forte in favore delle minoranze perseguitate.

Un ulteriore problema, poi, è rappresentato dagli annosi scontri tra l’esercito birmano e le numerose milizie etniche indipendentiste, tra cui kachin, karen e shan, concentrate nel nord e nell’est del Paese. I combattimenti scoraggiano i civili dal recarsi alle urne, favorendo il mantenimento dello status quo. È vero che il 15 ottobre è stata firmata a Naypyidaw, la capitale fondata dai generali, una tregua tra esercito e milizie, ma il cessate il fuoco è stato accettato solo da una parte dei gruppi ribelli.

L’elevato numero di partiti, la notevole frammentazione etnica del Paese, il crescente nazionalismo buddista e i rischi di violenze e brogli da parte dei sostenitori del regime dei generali sono incognite che rendono estremamente difficile formulare previsioni sullo svolgimento delle elezioni e sul loro risultato. Il rischio che in caso di sconfitta i soldati disconoscano il risultato, come già fatto nel 1990, è concreto. È necessario tuttavia ricordare che a partire dal 2010 il presidente e generale in congedo Thein Sein ha avviato un percorso di riforme in senso democratico, che ha portato a risultati concreti.

Tra questi: la liberazione di Aung San Suu Kyi dagli arresti domiciliari cui era stata confinata; le elezioni che hanno portato a costituire un esecutivo almeno formalmente civile; l’incremento della libertà di stampa; l’inizio di una graduale uscita del Paese dal decennale isolamento cui la dittatura lo aveva confinato, anche attraverso un processo di non facile allentamento dei legami con l’ingombrante vicino cinese. 



Quello che è certo è che, dopo oltre di 50 anni di dittatura (l’esercito ha preso il potere con un colpo di Stato nel 1962) e soli quattro anni di governo di transizione, iniziati nel 2011, indipendentemente dall’esito della consultazione elettorale l’influenza dei militari sul Myanmar non potrà essere cancellata con un colpo di spugna.

[Foto credit: Afp]

*Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.