Ai Weiwei, così bravo, così carismatico, così controverso. Dopo la restituzione del passaporto e recenti dichiarazioni altalenanti, il più famoso artista-intellettuale-dissidente cinese continua a far discutere e, soprattutto, ad attirare l’attenzione su di sé: rivoluzionario o ingranaggio – consapevole o inconsapevole – del sistema? “Ai Weiwei? Mostra un lato rosso all’Occidente e poi un lato bianco al governo cinese”, mi dice un’amica di Pechino sventolandomi sotto il naso la sua agenda che, appunto, ha due copertine di colore diverso. Le affermazioni arrivano dopo un altalena di dichiarazioni pubbliche che il più noto artista, intellettuale e dissidente cinese ha rilasciato da quando, a fine luglio, gli è stato restituito il passaporto e ha ricominciato a viaggiare per il mondo. A inizio agosto ha ammorbidito la propria posizione critica in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung; poi, a settembre, ha attaccato di nuovo, ma in via indiretta, criticando il governo britannico che non l’ha mai sostenuto durante le sue tribolazioni.
Insomma, Ai Weiwei non è necessariamente profeta in patria. Se c’è chi vede in lui il coraggio di avere inaugurato la dissidenza creativa, c’è anche chi sente puzza di bruciato: si dice che sventoli la bandiera rossa della rivoluzione a uso e consumo dell’Occidente, che lo mette sul piedistallo, gli fa fare mostre, lo arricchisce; ma che alzi bandiera bianca con il governo cinese, scenda a compromessi, goda ancora della posizione di rendita data dal fatto di essere figlio di Ai Qing, uno dei più famosi poeti cinesi contemporanei. E tutto sommato fa comodo alla leadership di Pechino, perché con la sua presenza così carismatica e ingombrante fa passare in secondo piano i cinesi che magari lottano nelle campagne, o nelle fabbriche, o per i diritti civili.
Ai Weiwei – dice un artista cinese che non vuole essere nominato – si occupa del tema del giorno, quello che fa spettacolo: i bambini morti nel crollo delle “scuole di tofu” durante il terremoto del Sichuan, sì; quelli lasciati indietro nelle campagne dai genitori migranti, che accumulano ritardo sociale e culturale, no; sono poco d’impatto.
Verso il 58enne artista pechinese c’è un sentire non necessariamente corretto, ma abbastanza diffuso.
Si sostiene che senza la pubblicità politica che ha avuto, Ai Weiwei non farebbe più mostre e che quindi il suo ruolo da ribelle e vittima sacrificale sia anche il suo business.
Opinabile, ma è anche vero che il decollo dell’artista-intellettuale-dissidente verso l’Empireo dell’arte internazionale è avvenuto con la sua operazione anti-bugie di Stato dopo il terremoto del Sichuan del 2008, dopo il pestaggio subito nel 2009 – che gli ha lasciato una lieve invalidità – e infine con la detenzione arbitraria di 81 giorni nel 2011.
I cinesi spesso inscenano proteste estreme, fino a sacrificare la propria vita: ma non amano particolarmente chi costruisce una carriera sul dissenso.
Lui, a dire il vero, cerca anche di spostare l’attenzione su altri artisti impegnati, ma questa è la sua condanna e la sua contraddizione: ogni volta che si muove, attira i riflettori su di sé e fagocita tutti gli altri.
L’ultima polemica con la Lego è significativa. La compagnia danese ha rifiutato a un museo australiano l’acquisto di oltre un milione di mattoncini che sarebbero serviti per un’installazione di Ai Weiwei chiamata Trace e patrocinata da Amnesty International. L’artista li avrebbe usati per ricreare le fattezze di prigionieri politici di tutto il mondo. Immediatamente, l’artista ha personalizzato la questione parlando di “censura” e addirittura di “discriminazione” nei suoi confronti. In un tweet ha chiesto ai suoi quasi 300mila followers di regalargli mattoncini Lego. I media occidentali si sono sbizzarriti a suggerire che la Lego ha in vista un grande business proprio con la Cina, lasciando intendere che la longa manus di Pechino fosse arrivata in Danimarca dove, si sa, c’è del marcio da sempre.
James Palmer, su Foreign Policy, osserva però che giusta o sbagliata che sia, la linea “no politics” dell’azienda dei mattoncini esiste da ben prima che Ai Weiwei si sentisse offeso: ha per esempio colpito anche il governo britannico, quando gli è stato ingiunto di ritirare gli omini della Lego utilizzati per una campagna propagandistica contro l’indipendenza scozzese; e una giornalista statunitense, che aveva postato su Flickr una foto dei medesimi pupazzetti – usati questa volta per riprodurre e celebrare le donne che fanno parte della Corte Suprema di Washington – si è vista recapitare il niet dell’ufficio legale Lego.
Cogliamo uno dei tanti commenti che arrivano da quel mondo dell’arte pechinese in cui cinesi e stranieri si mescolano e sovrappongono (anche qui manteniamo su richiesta l’anonimato dell’autore): “Ai Weiwei si è inventato un ruolo interessante perché tutto giocato sull’anticipazione delle mosse sia della Cina sia dell’Occidente. Ha usato la sua posizione da principino [taizidang, figlio di qualche figura importante dell’establishment, ndr] e il proprio fiuto politico per piazzarsi sempre nel posto in cui tutti volevano che si trovasse, ma lo ha fatto con sottigliezza: prima di darsi alla dissidenza, flirta un po’ con tutti e due – Cina e Occidente – e costruisce lo stadio per le Olimpiadi. Poi, appena prima dei Giochi, rinnega lo stadio e la Cina, ma non firma mai nessun documento tipo Charter 08 [il documento siglato da diversi intellettuali cinesi che, nel 2008, chiedeva una democrazia multipartitica, ndr], perché sa benissimo cosa è considerato ‘sovversione’. Così, al momento giusto fa incazzare la Cina ed eccita l’Occidente che lo consacra, replicando di continuo la strategia del rischio calcolato, come nel caso dell’arresto”.
Narcisismo pilotato razionalmente. Ai Weiwei è l’opera d’arte di Ai Weiwei.
Quando era agli arresti, nel 2011, la polizia gli chiese “Ti abbiamo reso così famoso, nel mondo?”. “Sì – rispose lui – senza di voi non sarei mai diventato così noto come artista”. Secondo alcuni, il suo rischio calcolato si basa tutto sull’appartenenza alla schiera dei principini e infatti i momenti più brutti li passa con Hu Jintao al potere, che principino non era. Quando arriva Xi Jinping, Ai Weiwei scommette sul legame di casta e, nonostante il giro di vite sempre più intenso contro la dissidenza di ogni genere, paradossalmente lui se la passa meglio: “Arresti domiciliari – si legge in un altro commento in Rete – fa la vittima nel suo ‘nido delle aquile’, mentre pilota mostre in Cina e in tutto il mondo via Skype e riceve celebrità a cena”. Poi – inevitabile? – arriva l’assoluzione, la restituzione del passaporto e il libero girovagare per musei e salotti buoni di tutto il mondo, con l’ipervalutazione delle sue opere.
Quanta verità c’è in queste opinioni? Quanta invidia? Quanto sono spontanee e quanto invece pilotate dalla propaganda ufficiale?
Resta il fatto che, a Pechino e dintorni, c’è chi è convinto che tra Ai Weiwei e il governo ci sia un implicito gioco delle parti: tu critichi, ma fino a un certo punto, quanto basta per piacere all’Occidente e fare i soldi. E alla fine, la nomenklatura se la ride, perché Ai Weiwei la aiuta a diffondere l’idea che i dissidenti siano tutto sommato dei piacioni il cui unico scopo è avere successo fuori dalla Cina.
Qiao Xingyue, un regista 33enne che si considera un allievo di Ai Weiwei, scaccia le malelingue: “Lui è stato fondamentale per far comprendere alla mia generazione quali siano i diritti base da cui non si può prescindere e per indicarci una via”, ci ha detto. “Ai Weiwei combatte, certo, ma è anche abbastanza intelligente. Molti artisti si lamentano perché credono che le sue opere siano sopravvalutate, ma non capiscono quanto abbia fatto per inserire l’elemento politico nell’arte”.
Se si parla di arte e politica, appare piuttosto lampante che la più bizzarra conseguenza del fenomeno Ai Weiwei sia stata la nascita di un “aiweiweismo” di bassa lega: di fronte alla calata dall’alto di una “industria culturale di Stato” che intercetta tutti i finanziamenti, c’è chi si è creato uno strumento di sopravvivenza.
Songzhuang è uno dei villaggi di creativi che circondano Pechino, già soprannominato “cimitero degli artisti di terzo livello” da qualche crudele membro di comunità concorrenti.
Il pittore TJ dice di essere stato in galera due anni per un accoltellamento, dove ha scoperto l’arte. L’ex bad boy si è messo quindi a dipingere quadri a olio che “rappresentano l’oppressione spirituale, soprattutto contro l’avanguardia”, di cui si pregia di far parte. Raffigura questa oppressione in maniera “indiretta”: figure umane avvolte da colori cupi, curve, simboli di “frustrazione interiore”. Indica i quadri sui muri del suo studio, grandi tele che, pur senza intenderci troppo d’arte, non esiteremmo a definire “croste”. Il gruppo di giornalisti occidentali in visita a Songzhuang è molto colpito e raccoglie le sue parole. “L’unico modo di rispettare la tradizione cinese è innovare – dice – ma se i soldi [del governo] vanno altrove e noi siamo repressi, come si fa?”
Qualcuno mette mano al portafoglio e si porta via una piccola dose di frustrazione interiore grondante innovazione.
Scena simile nello studio di LD che dipinge invece maiali che “simboleggiano i problemi sociali”. Corpi umani e volti da porci ovunque, “che sorridono ma – vedete? – rivelano inquietudine. Si vive come maiali ovunque, non solo in Cina”. Lui ha dipinto anche Obama, Gheddafi e la vecchia leadership cinese, tutti con la faccia da maiali. “Ma – si affretta a precisare – vivere come maiali non ha necessariamente significato negativo, anzi indica ottimismo”. Qui nessuno mette mano al portafoglio, i quadri di LD costano troppo.