Sono usciti i tanto attesi dati sullo stato dell’economia cinese nel terzo trimestre 2015. Il Pil del Dragone è cresciuto del 6,9 per cento, cioè meglio delle più funeree previsioni. Almeno, secondo Pechino. Per il 2016 si prevede già un ulteriore calo, ma a Li Keqiang – e alla leadership tutta – sta a cuore soprattutto il dato sull’occupazione e lo sviluppo di tecnologie e servizi. Con le infrastrutture a fare da traghettatrici. "Continuano le pressioni al ribasso nel settore immobiliare e delle esportazioni, ma i consumi robusti e le infrastrutture hanno impedito un rallentamento più marcato, anche se le preoccupazioni circa i dati persisteranno”, recitano i media di Stato nel commentare il 6,9 per cento di crescita dell’economia cinese nel terso trimestre 2015.
È un dato inferiore rispetto al 7 per cento posto come obiettivo di fine anno, ma è superiore alle più funeree previsioni. C’era infatti consenso diffuso tra gli analisti nel ritenere che, se nella prima metà dell’anno la crescita aveva mantenuto le promesse, nel trimestre che si è chiuso oggi avrebbe potuto scendere al 6,8 per cento – per alcuni addirittura al 6,4 – compromettendo gli auspici per fine 2015.
"Consumi robusti e infrastrutture", si diceva, nel trimestre precedente era stato invece il settore dei servizi a tenere botta. Le autorità economiche prevedono anche che la crescita rallenterà ulteriormente anche nel 2016, ma il dato ufficiale che rivela le future aspettative del governo sarà diffuso solo all’inizio del prossimo anno. “In un simile scenario – aggiunge China Daily – ci aspettiamo misure monetarie e fiscali più incrementali”.
Il premier Li Keqiang, responsabile delle questioni economiche, aveva già messo le mani avanti nei giorni scorsi. Sabato aveva detto che l’obiettivo finale 7 per cento “non è facile”, durante una riunione di funzionari provinciali, secondo quanto riportato da Reuters.
Ci aveva tenuto però a rassicurare la Cina e il mondo aggiungendo che “finché [il livello di] occupazione rimane adeguato, il reddito della gente cresce, e la situazione ambientale continua a migliorare, un Pil un po’ più alto o più basso del 7 per cento è comunque accettabile”. Ed ecco, puntuale, il 6,9 odierno.
Il dato sulla crescita e le anticipazioni di Li arrivano dopo che i risultati delle importazioni cinesi di settembre, diffusi la settimana scorsa, si erano rivelati in calo per l’undicesimo mese consecutivo, attestandosi a un complessivo -20 per cento rispetto a un anno fa. Alla radice, c’è un fattore positivo per la Cina, il prezzo ridotto delle materie prime; ma anche la debolezza della domanda interna, specialmente quella industriale. In altre parole, il manifatturiero continua a rallentare. I profitti industriali sono scesi dell’8,8 per cento anno su anno nel mese di agosto, il calo più netto da quando la Cina ha cominciato a pubblicare questi dati nel 2011.
E se è vero che l’export cala meno del previsto – solo 3,7 per cento rispetto al 5,5 di agosto – la persistente debolezza della domanda interna ed esterna fa sì che il valore combinato di esportazioni e importazioni cinesi sia diminuito dell’8,1 per cento nei primi nove mesi del 2015 rispetto allo stesso periodo nel 2014, ben al di sotto dell’obiettivo ufficiale di un 6 per cento di crescita nel corso dell’anno. Valori quasi ribaltati.
Per le difficoltà del settore industriale e della crescita tutta, Pechino biasima soprattutto la debolezza della ripresa globale e la scarsa domanda delle economie evolute, come a dire: “Siamo tutti sulla stessa barca, ma voi siete quelli che la stanno facendo affondare”. È una tesi confermata indirettamente anche da Christine Lagarde – direttrice del Fmi – secondo cui “l’ultima istantanea dell’economia globale ci mostra un disagio ormai familiare: una fragile e irregolare ripresa, con una crescita inferiore al previsto e maggiori rischi di una ricaduta”.
Nello specifico della Cina, le autorità di Pechino continuano però a ostentare ottimismo, dicendo che per continuare la traiettoria di crescita si può fare affidamento su alcuni promettenti fattori: la nascita di nuove industrie, tra cui spicca il settore Internet e delle nuove tecnologie; la continua necessità di investimenti in infrastrutture nelle regioni occidentali del Paese; l’urbanizzazione in corso, cioè soprattutto i servizi.
A dare una pacca sulla spalla al premier Li ci pensano anche le stime di chi osserva che il mercato del lavoro cinese continua a crescere, facendosene un baffo del rallentamento nell’industria. Ormai, è infatti il settore dei servizi – per definizione ad alta intensità di lavoro – a fare da traino. Nel secondo trimestre era incrementato del 12,1 per cento, nel terzo "solo" dell’11,9, confermando però numeri a doppia cifra ben al di sopra della crescita complessiva. La domanda che si pongono tutti è: basterà per sostituire la claudicante attività manifatturierà?
Quanto all’importanza ormai acquisita dai settori tecnologici innovativi, sarà forse questo il motivo per cui, durante il suo recente viaggio negli Stati Uniti, il presidente Xi Jinping ha dato il proprio imprinting ufficiale ai golden boy dell’Information Technology cinese facendosi fotografare con loro in una riuscitissima istantanea di gruppo, in cui le posizioni di ognuno erano minuziosamente studiate, come in una cerimonia imperiale.
[Per inciso, sarà interessante osservare, in futuro, se e come questa nuova generazione industriale si sostituirà ai vecchi boiardi di Stato che la campagna anticorruzione sta cercando di decimare in questi anni: saranno una nuova “casta” in grado di penetrare e ricattare il potere politico? O saranno i “capitani coraggiosi” che traghetteranno la Cina nel futuro?].
Infine, tengono oggi botta le infrastrutture, che soprattutto a cavallo della nuova Via della Seta dovrebbero essere le vere traghettatrici tra vecchia economia del cemento e dell’acciaio e nuova economia dei consumi e dei servizi. Se resistono loro – anzi crescono – la transizione può essere più dolce.
Di fronte all’ottimismo sbandierato da Li e ai dati parzialmente incoraggianti di oggi, alcuni analisti hanno tuttavia espresso la preoccupazione che il forte calo dei profitti industriali nel corso dell’ultimo anno possa avere una pesante ricaduta anche sulla crescita dei redditi e dei salari prossimi venturi. Il che rischierebbe di indebolire ulteriormente la crescita complessiva.
Insomma, non è che industria tradizionale e servizi ad alto valore aggiunto siano completamente slegati tra loro, almeno finché lo sviluppo dei secondi dipende anche dalle tasche di chi lavora nella prima: potrebbero così mancare le basi materiali alla transizione in corso da fabbrica del mondo a economia evoluta.
Si rischia che le famose pietre da tastare, mentre si attraversa il fiume, siano già state portate via dalla corrente. E pluff.