La cinque giorni di Narendra Modi in Usa, secondo visita negli States in un anno, ha mostrato tutta la difficoltà che l’India deve affrontare per "uscire dal gruppo" davanti alla comunità internazionale. Schiacciato dalle compresenze ingombranti di Xi Jinping e papa Francesco, Modi è riuscito a bucare l’anonimato grazie alle sue lacrime in diretta a colloquio con Mark Zuckerberg.Il premier indiano Narendra Modi è in Usa per una cinque giorni di incontri ai massimi livelli della diplomazia e dell’industria statunitense. I viaggi di Modi, per i media indiani, sono ormai un momento di epica contemporanea, circondati da un alone di eccezionalità e drama a ricalcare che i tempi sono cambiati, l’India è cambiata e il mondo se ne sta accorgendo. Ma questa volta ci troviamo di fronte a un Modi in difficoltà, senza più giochi di prestigio da mostrare al pubblico e, soprattutto, a livello internazionale assolutamente adombrato dalla visita concomitante, negli Usa, del presidente cinese Xi Jinping.
Modi è tornato negli Usa quasi a un anno preciso di distanza dalla prima visita ufficiale negli States da primo ministro. Un evento entrato davvero nell’immaginario collettivo dell’India contemporanea, fatto di flash, grandeur e folle oceaniche a pendere dalle labbra del nuovo leader. All’epoca, Modi arrivava carico di sogni e speranze, promettendo alle controparti politiche e al suo pubblico l’inizio di una rivoluzione copernicana dela Repubblica Indiana: siamo pronti ad entrare fra i grandi, apriremo il mercato, siamo la nuova fabbrica del mondo, porte aperte per tutti così che tutti si possa godere della crescita indiana: indiani e imprenditori stranieri.
A un anno di distanza, le tappe del nuovo tour di Modi si ripetono con minime variazioni sul tema: cene con imprenditori, tavole rotonde sui cambiamenti climatici, bagni di folla con la comunità indiana all’estero. Ma a cambiare, questa volta, è il messaggio. Modi, dopo un anno e mezzo di governo, è chiamato a portare i risultati delle promesse fatte in passato. E di risultati, al momento, ce ne sono pochini.
Seema Sirohi, analista per Gateway House, ad esempio scrive: «Xi [presidente cinese, ndt] si è conquistato le prime pagine immediatamente con l’annuncio di compagnie cinesi pronte ad acquistare 300 jet Boeing per il valore di 38 miliardi di dollari, oltre ad aprire una fabbrica per l’assemblaggio in Cina. L’ok dell’India su un contratto da 3 miliardi di dollari per l’acquisto di elicotteri Boeing Apache e Chinook, arrivato proprio alla vigilia della visita di Modi, è apparsa quindi poca cosa, anche considerando che la Cina, da sola, copre il 20 per cento del mercato internazionale di Boeing».
Per Modi, trovarsi a gareggiare all’estero col gigante cinese è un suicidio d’immagine: troppa la differenza nella portata di fuoco commerciale dei due paesi, troppo centrale il ruolo della Cina nelle grandi questioni internazionali (le ricorda la stessa Sirohi: internet governance, emissioni inquinanti, Trans Pacific Partnership). Va a finire che, sempre quotando Sirohi, Modi diventa «uno tra i leader in visita a New York».
Un anno fa, l’India aveva promesso la creazione di un ambiente per gli investimenti più agevole: meno burocrazia, meno permessi, meno intralci sull’acquisto di terreni, più potenziamento delle infrastrutture. A un anno di distanza, come assolutamente realistico aspettarsi e non si può farne una colpa a Modi, in India le cose sono cambiate, ma troppo poco: la legge sull’acquisto dei terreni è di fatto bloccata in parlamento, la semplificazione burocratica si è concretizzata parzialmente, e fare business nel paese rimane questione piuttosto annosa.
Il portavoce del ministero degli Esteri indiano Vikas Swarup, durante la conferenza stampa post cena di Modi con alcuni Ceo del gruppo Fortune 500 (il top dell’imprenditoria), in un passaggio infinitesimale dichiara: «I Ceo hanno condiviso con noi le proprie preoccupazioni e le proprie esperienze sul fare affari in India». Interessante integrare questa frase mite con qualche dettaglio svelato da Sirohi, che riprende le parole di Dave Cote, Ceo di Honeywell: «La burocrazia indiana è rintronante. È come prendere la burocrazia inglese, raddoppiarla e aggiungerci altre dieci persone».
È vero che gli investimenti sono aumentati, ed è vero anche – ma un po’ meno vero di quel che sembri – che l’economia indiana sta crescendo a ritmi buoni. Ma la distanza tra le promesse rivoluzionarie di Modi e la realtà è ancora enorme e in questi giorni il premier, senza super annunci da fare, affronta la difficoltà di doversi far largo in mezzo a una comunità internazionale che sta osservando altro e, comprensibilmente, si sta occupando di altro: non dell’India.
Ci è riuscito in parte solo domenica, a margine degli incontri coi leader dell’hi-tech nella Silicon Valley (tra cui il prossimo Ceo di Google, di origini indiane, Sundar Pichai, e i media indiani impazziranno) più un bagno di folla con la comunità indiana di San Jose, in un palazzetto dello sport (nota, ma poi ci torneremo meglio in futuro: qui spiegano come, effettivamente, si organizzano questi bagni di folla della diaspora indiana).
Le sue lacrime a colloquio con Mark Zuckerberg, mentre ricordava le fatiche della propria madre nel crescere figli nell’indigenza dell’India rurale, hanno fatto il giro dei media internazionali.
Ma messi da parte gli annunci pirotecnici e le promesse, l’India rimane un grande paese in divenire, una superpotenza in potenza, che ha ancora un sacco di lavoro da fare. Ci vorrà pazienza e fiducia: due ingredienti sui quali Modi si gioca la sopravvivenza politica.
[Scritto per East online; foto credit: latimes.com]