Mu Shiying (1912 – 1940), che abbiamo già conosciuto per la descrizione della rombante Shanghai degli anni Trenta, ci mostra qui l’altra faccia della luna: la Cina povera, sconvolta dalle violenze di quegli anni, che distruggono le famiglie e mettono duramente alla prova la proverbiale resilienza della gente comune. Un racconto in due puntate. Simili a foglie autunnali gialle come il sodio che vanno alla deriva, una montagna e un’altra montagna, un corso d’acqua e un altro corso d’acqua — eravamo due persone.
Con una coppia di batacchi di legno ed un violino a due corde, insieme cantavamo Lianhualao attraverso questa città: davanti alle porte in vimini delle capanne, davanti agli intarsi sui cancelli pitturati di nero al centro dei muri dei palazzi, nelle strade, nella sala degli esami. Davo a lei la singola monetina, la coppa di zuppa densa, la ciotola di riso freddo — eravamo due persone.
Proprio così, eravamo due persone, ma lei ieri è morta.
Era venti anni fa, a quel tempo i miei capelli erano ancora neri come i miei occhi, e i soldati attaccarono la mia casa. Essendo morta l’intera famiglia, mi misi a correre, totalmente ignaro di dove stessi andando. Corsi verso sud, quando fu sera ero davvero stanco, così corsi in quel capanno che mi stava di fronte. Lei si trovava all’interno, piangeva raccolte su sé stessa, piangeva singhiozzando. A quel tempo ero ancora timido, e mi sedetti un po’ distante. Lei mi guardò furtivamente, e abbassò il volume del pianto. Mi dissi: confortala! Questa ragazza si è ritrovata qui a piangere, in qualche modo.
«Non piangere, ragazza! Cos’hai da piangere!» le dissi, seduto in disparte.
Lei piangeva ancora, senza dire una parola, solo che piangeva un po’ più forte. Non è forse una cosa assurda? Non osai parlare di nuovo. Guardai fuori dal capanno, ma non osavo guardare lei. Il cielo era scuro, e una luna ricurva illuminava quei campi. Né vicino, né in lontananza riuscivo a scorgere un fuoco. Un cane nero che stava fuori dal capanno mi guardava; mi ricordo ancora del cane nero. Anche noi, a casa, avevamo un cane nero, la nostra mucca era bianca, ed avevamo anche un gallo nero dal piumaggio bellissimo: volevamo ucciderlo e per tre anni non abbiamo avuto il coraggio di farlo. Avevamo anche un gatto macchiato: mia sorella lo amava particolarmente, papà detestava particolarmente ammettere che che il gatto prendeva il cibo di nascosto, infatti mamma voleva bene a mia sorella, papà ne voleva a me. Quel gatto macchiato rubava le cose per mangiarle e papà voleva tagliargli la testa. Mia sorella lo abbracciava, immobilizzandolo, e allora papà la picchiava; mamma sentiva lei che piangeva e allora picchiava me, e appena io facevo baccano, papà e mamma iniziavano a litigare. Ma dove era andato papà? Dove erano andate la mamma e mia sorella? E quel cane nero, quella mucca bianca, quel gatto macchiato? Dove erano andati, loro?
Continuavo a pensare e mi veniva da piangere; lei però, chissà quando, si era fermata, non piangeva più. Io voltai la testa per sbirciare, e anche lei la voltò, frettolosamente: temeva l’imbarazzo e non voleva lasciarmi guardare il suo viso, così la guardai da dietro. Lì, stava mangiando non si sa cosa; mangiava abbastanza di gusto, deglutì, e io deglutii della saliva. Nel mezzo della notte sentii qualcosa che assomigliava a un fulmine che cadeva. Lei girò la testa per guardare; io, non so perché, ingoiai ancora della saliva, lei sbottò a ridere rumorosamente, ero così imbarazzato!
Tirò fuori un panino al vapore: il braccio teso, distante, lo teneva. Io, ancora incapace di gestire l’imbarazzo, scattai, arrossendo, quindi mangiai, e non osai dire neanche una parola. Dopo aver finito, la guardai mangiare: ne aveva ancora cinque. Appena alzò la testa io, prontamente, inclinai lo sguardo. Lei ne prese ancora uno e me lo diede e io, in volto, arrossii in maniera davvero terribile.
«Ti ringrazio molto!» dissi.
Finito di mangiare, lei me ne diede altri due.
«Ti ringrazio davvero molto!» dissi io.
«Ne vuoi ancora?».
Come potevo dire che non era ancora abbastanza? Dissi che era sufficiente.
«Non avrà fame, un uomo, se mangia così poco».
«Non ho fame; e come è possibile che tu stia qui, tutta sola?».
«Tutta la mia famiglia è morta!» I suoi occhi erano tutti rossi e voleva di nuovo piangere. Io rimasi zitto, trascorse un attimo, aspettai che stesse meglio, e solo allora parlai: «Come mai?». «Sono andati in guerra, tutta la nostra famiglia è andata completamente a pezzi».
«E tu dove sei andata?».
«Dove potevo andare?».
«Dove volevi fuggire?».
«Non volevo fuggire da nessuna parte, ho preso un po’ di panini al vapore, mi sono messa a correre e sono arrivata qua. E tu invece?».
«Io non ho preso neanche qualcosa da mangiare. Non sono stato ucciso dai soldati, ciò nonostante il cielo era adirato, e allora dove potevo andare? Dove avevo programmato di andare è dove sono arrivato».
Io e lei, più stavamo seduti e più ci avvicinavamo; poggiai la mia mano, toccai la sua, sorrisi, mentre continuavo ad avvicinarmi, molto imbarazzato.
1. continua
[Il pezzo è anche su Caratteri cinesi, Traduzione di Franco Ficetola*]*Mu Shiying (1912 – 1940) fu uno scrittore cinese noto come massimo esponente del modernismo, stile letterario che si ispirava all’analogo occidentale. Fu attivo a Shanghai negli anni Trenta, dove contribuì a riviste come Les Contemporains (Xiandai, 1932-1935), a cura di Shi Zhecun. Mu ha scritto più di 50 racconti, alcuni romanzi, sceneggiature, e numerosi saggi nel corso della sua breve vita. Tra i suoi più celebri racconti, "Shanghai Fox-trot", "Craven A" e "Cinque in un locale notturno". La sua poetica è incentrata sull’atmosfera da sogno della città moderna, piena di locali notturni e cabaret.
*Franco Ficetola (francoficetola@gmail.com) nasce a Roma il 14 marzo del 1992. Dopo la maturità scientifica, consegue nel 2015 la Laurea in Lingue e Civiltà Orientali presso l’Università La Sapienza di Roma. Approfondisce inoltre lo studio della lingua cinese frequentando, nel 2014, l’Università di Lingue Straniere di Pechino