Sinologie – Quando il sig. Dino colmava il vuoto diplomatico

In Sinologie by Redazione

Indiscusso protagonista delle principali dinamiche economico-finanziarie degli ultimi decenni, il mercato cinese sembra, oggi, essere diventato l’ineludibile punto di riferimento di molti sistemi produttivi nazionali, capace di influenzare, più o meno direttamente, l’andamento dell’intera economia globale. Tanto e del tutto nuovo appare, dunque, l’interesse per la lontana realtà asiatica e per l’attuale stato delle relazioni commerciali sino-italiane, così come numerosi risultano anche gli interrogativi sugli effettivi rapporti che, in passato, hanno legato il nostro Paese al vecchio gigante estremo orientale.

Le condizioni, infatti, si sono sempre rivelate positive? Come e quando è sorta la curiosità italiana per la tanto diversa economia cinese? Chi ha realmente spalancato alle maggiori imprese nazionali le porte dell’antico mercato asiatico? Chiare risposte paiono giungere proprio da questo lavoro di ricerca, nato anche dalla volontà di ricostruire ed approfondire situazioni e fasi storiche molto particolari e spesso poco trattate.

Stando alle diverse fonti, effettivamente, l’Italia vanta un lontano primato nei rapporti di interscambio economico e culturale con l’antico Paese di Mezzo; basti citare, uno su tutti, il caso del giovane mercante veneziano Marco Polo, giunto in terra cinese sul finire del XIII secolo, attratto dall’allattante prospettiva di intraprendere un primo, fluente dialogo commerciale con la misteriosa controparte orientale.

Sulla base di queste solide e profonde fondamenta, è facile pensare che, con il passare delle varie epoche, le relazioni bilaterali sino-italiane siano andate intensificandosi e consolidandosi, manifestando il loro reale potenziale e dimostrandosi presto all’altezza delle aspettative. La realtà, tuttavia, è ben diversa. Le circostanze, in effetti, non si sono, poi, sempre rivelate tanto favorevoli e i rapporti tra i due Paesi hanno anche attraversato diversi momenti difficili, caratterizzati da ambiguità e da una lunga assenza di contatti formali.

Il nodo centrale di tale questione riguarda, in particolare, gli anni intorno alla metà del secolo scorso, quando il colosso asiatico si avviò, finalmente, verso una nuova stabilizzazione governativa, dando inizio, allo stesso tempo, ad una nuova fase delle proprie relazioni con l’estero. Ciò nonostante, è bene ricordare che i continui e radicali mutamenti del contesto socio-economico e politico orientale erano ormai in atto da diverso tempo.

Numerosi episodi drammatici, effettivamente, avevano sconvolto il popolo cinese già a partire dal primo Novecento, cambiandone e segnandone profondamente l’avvenire. Il rapido declino della millenaria istituzione imperiale e la successiva affermazione delle forme organizzative e degli ideali repubblicani, così come la strenua lotta all’arretratezza e alla miseria, il violento scontro tra forze politiche avversarie e i conseguenti disordini interni si erano, infatti, presto rivelati eventi la cui portata epocale aveva direttamente investito il destino del Paese, relegandolo a lungo ai margini delle già altrettanto intricate vicende internazionali.

Soltanto nell’ottobre del 1949, quindi, la Cina tornò a richiamare la piena attenzione delle principali potenze occidentali, saldamente guidata dal regime comunista di Mao Zedong, indiscusso leader politico e militare. Fu proprio allora, però, che il governo italiano, seguendo la linea imposta dagli Stati Uniti, da cui all’epoca dipendeva quasi esclusivamente l’intera economia nazionale, non proseguì con il riconoscimento ufficiale e la conseguente normalizzazione dei rapporti, inaugurando la cosiddetta lunga fase di “vuoto diplomatico”, destinata a durare per ben 21 anni.

Gli effetti diretti ed immediati di una tale drastica e forzata decisione, ovviamente, non tardarono ad abbattersi sul volume dei reciproci scambi, sempre più diversificati e in netta ripresa, dopo la grave flessione del periodo bellico. Ad aggravare ulteriormente la situazione contribuirono, poi, le continue tensioni tra blocchi contrapposti e le incessanti minacce al precario equilibrio sovranazionale. Il definitivo avvicinamento cinese all’Unione Sovietica di Stalin, con la sigla di accordi trentennali, l’attivo coinvolgimento nella guerra di Corea, nel giugno del 1950, e il conseguente rigido embargo economico, decretato, poi, per espressa volontà americana, nell’estate del 1952, determinarono, difatti, una rapida e inarrestabile caduta verticale dei valori dell’interscambio.

Fu in questo contesto, dunque, che andò ad inserirsi l’azione pioneristica di uno dei più scaltri e lungimiranti uomini d’affari del tempo, il socialista Dino Gentili. Nato a Milano nel 1901 da una nota famiglia di commercianti, attivo antifascista, esponente di spicco del socialismo italiano e figura prestigiosa del nostro trading, il “signor Dino”, così come finì per essere affettuosamente chiamato in Cina, può, di fatto, essere considerato il vero precursore dei commerci tra l’Italia e la Repubblica Popolare Cinese, avendone da subito compreso le nascoste potenzialità.

Effettivamente, proprio in quel momento, a Pechino, si cominciava a guardare alla prossima stabilizzazione economica non soltanto tramite l’import-export di merci, ma anche tramite l’acquisizione tecnologica e lo sviluppo industriale. Le prospettive che sembravano profilarsi per alcune delle più grandi aziende italiane, soprattutto nel medio – lungo periodo, erano, quindi, concrete ed allettanti.

Il primo a muoversi fu, allora, l’intrepido manager milanese; questi, infatti, con lo scopo di riallacciare buoni e proficui contatti con i vari Paesi ad economia socialista, già intorno al 1950, aveva fondato la Comet – Società per gli scambi internazionali Srl, le cui relazioni con la Cina maoista si avviarono, poi, proprio a partire dall’agosto del 1952, nonostante la recente imposizione dell’embargo ed in pieno conflitto coreano.
La società da poco costituitasi, difatti, scelse comunque di proporsi quale principale intermediaria tra le maggiori imprese italiane e le più importanti istituzioni economiche cinesi; contattava, pertanto, entrambe le parti, suggeriva compensazioni di mutua convenienza e metteva a disposizione la propria competenza per appianare le differenze, presenti tra i diversi sistemi di produzione, negoziazione e vendita.

Ciò nonostante, da un’attenta e precisa analisi risultano ben chiari quali e quanti effettivi rischi Gentili e la sua compagnia corressero quotidianamente; numerosi erano, in effetti, i problemi legati ai pagamenti e alle possibilità di realizzare i cambi valutari, così come costante era il pericolo di incontrare le dure sanzioni americane. L’abile imprenditore lombardo, tuttavia, non era, di certo, un tipo arrendevole o condiscendente e il superamento dell’embargo economico non era, poi, del tutto impossibile. Dopo aver acquistato le varie merci italiane e aver proceduto agli adempimenti necessari, infatti, la Comet, tramite la Marine Trading, sua affiliata londinese, rivendeva il carico ad un’azienda partner di Hong Kong e, una volta giunto fin lì, questo veniva, infine, fatto proseguire per Canton.

Di estrema rilevanza, ai fini della riuscita delle varie transazioni, si rivelava, però, la stabile presenza a Pechino di Spartaco Muratori, uomo di fiducia ed esperto commerciale. Proprio a quest’ultimo spettava, di fatto, la vera mediazione con il China Committee for Promoting International Trade e il China National Import and Export Corporation, i due principali enti economici cinesi, incaricati dal ministero, di fronteggiare l’embargo e di gestire i rapporti con i Paesi non appartenenti al blocco socialista.

Sulla base di questi presupposti, è anche piuttosto semplice comprendere che le prime soddisfazioni e i primi successi per l’affermato manager non tardarono molto, poi, ad arrivare; in Oriente giunsero presto, infatti, prodotti finiti e semi lavorati italiani, contro materie prime e piccoli oggetti preziosi.

Gentili, tuttavia, come più volte confermato da chi lo conosceva bene, era un uomo estremamente ambizioso ed ostinato; per tale ragione, dunque, fin dall’avvio dei suoi primi contatti con la controparte asiatica, ricercò strenuamente l’appoggio statale, progettando, addirittura, l’invio di una “missione” commerciale a Pechino, composta dai maggiori rappresentanti del mondo economico, da lui guidata e non ostacolata dalle forze governative. L’ambiente istituzionale italiano, però, sebbene con rare eccezioni, si mostrò sempre, per la maggior parte, contrario ed ostile a tali progetti, perennemente fedele alle linee d’azione definite dal potente alleato statunitense, scongiurando, così, il pericolo di incontrarne la dura ostilità. Tutto ciò spinse, quindi, il tenace imprenditore ad agire, ancora una volta, autonomamente.

Nella vita, eppure, è risaputo, le occasioni impreviste e le circostanze favorevoli giocano un ruolo decisamente importante; fu, pertanto, la perfetta combinazione di tempismo, genialità e ostinazione ad indurre il vecchio Gentili a recarsi a Ginevra, tra la primavera e l’estate del 1954. Proprio nella ridente e pacifica cittadina svizzera si trovava, in quello stesso momento, Zhou Enlai, capo del governo e ministro degli Esteri cinese.

Da quest’ultimo, seppur privo di un qualunque appoggio governativo, egli non solo riuscì a farsi ricevere, ma anche a farsi invitare in Cina; ed esattamente un anno dopo, nel luglio del 1955, nonostante i numerosi ostacoli durante i preparativi, i tentativi di sabotaggio da parte dell’ambasciata americana a Roma, le critiche e gli avvertimenti dei vari ambienti istituzionali, Dino Gentili riuscì a guidare a Pechino il suo piccolo gruppi di industriali italiani. Come era prevedibile, la missione si rivelò un vero ed autentico successo, il giro d’affari della stessa Comet non si allontanò dai dieci milioni di sterline e il noto trader ottenne, infine, il rispetto e la stima che, realmente, meritava.

Poco dopo, poi, non ancora soddisfatto e fermamente convinto della necessità di un dialogo bilaterale ufficiale, egli si impegnò attivamente anche per incoraggiare e favorire il viaggio in terra cinese dell’amico di vecchia data, Pietro Nenni, leader del Partito Socialista Italiano. Tale evento, in particolare, seguito con grande curiosità sia in Italia che all’estero, sembrò essere, all’epoca, la prova decisiva che nei rapporti tra i due Paesi qualcosa stava, finalmente, cambiando.

Rilevanti e radicali mutamenti, del resto, erano già in atto anche a livello internazionale; nel maggio del 1957, infatti, gli inglesi arrivarono unilateralmente all’abolizione del China differential, il pacchetto di restrizioni economiche più dure verso la Cina comunista, lanciando un chiaro segnale alle altre nazioni europee ed invitandole a fare altrettanto. La risposta delle grandi potenze occidentali non tardò, poi, molto a sopraggiungere; a partire dal 1958, di fatti, se ne decretò la totale abrogazione. Il 1958, dunque, inaugurò una vera stagione di svolta; anche a Pechino, effettivamente, vi erano nuovi fermenti, che culminarono, in seguito, con l’avvio del cosiddetto Grande balzo in avanti, il nuovo piano economico con cui il vecchio Mao intendeva accelerare lo sviluppo industriale del Paese.

Opportunità davvero inedite, quindi, sembravano giungere dalla lontana nuova realtà asiatica; Gentili fu, ancora, il primo a muoversi, riunendo nella Cogis (Compagnia Generale Interscambi Spa), una nuova società da lui guidata e diretta, le maggiori imprese private italiane e dando, così, nuovo slancio agli scambi italo – cinesi. Questa volta, però, egli non fu il solo a volgere il proprio sguardo verso Oriente e nel dicembre del tanto proficuo 1958, infatti, a giungere in Cina fu anche Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’Eni, vicino all’ambiente democristiano, vero grande protagonista della ricostruzione economica nazionale, nonché uno degli uomini più potenti d’Italia.

Lo spunto per un’eventuale missione in terra cinese, secondo le varie fonti, venne fornita a quest’ultimo dall’amico Giorgio La Pira, sindaco democristiano di Firenze, il quale, più volte già in passato, si era mostrato particolarmente interessato proprio alla Cina popolare e all’idea di poter intraprendere con essa un primo dialogo, al fine di realizzare una politica planetaria a sostegno della pace. L’influente manager di Stato, dopo una lunga e complessa trattativa, giunse, così, a Pechino con una propria delegazione di tecnici e collaboratori, attratto anche dall’allettante possibilità di spalancare ai prodotti delle proprie aziende le porte del ricco mercato estremo orientale.

L’arretratezza tecnologica della Repubblica Popolare Cinese, tuttavia, dovette subito balzare agli occhi dell’esperto Mattei; ciò, di certo, non lasciava così grandi speranze alla fornitura di greggio nell’immediato, ma, sicuramente, denunciava un disperato bisogno di assistenza nella crescita industriale, considerato molto lucrativo per il futuro. Idee simili, ovviamente, circolavano già da tempo in altri Paesi europei, mentre era la prima volta che un organo statale italiano si proponeva in tal modo verso la Cina rossa. Numerose furono, comunque, le polemiche al rientro in patria, alimentate soprattutto dal mancato ricevimento del noto industriale da parte dei massimi vertici del regime. Il suo successivo declino dell’invito a tornare a Pechino, l’anno seguente, non fece, poi, che aumentare l’ipotesi di una sua probabile irritazione, in conseguenza a tale incontro non riuscito.

È pur vero, però, che, sebbene non produsse risultati istantanei particolarmente esaltanti, l’esperienza cinese dell’illustre Presidente dell’Eni si rivelò, poi, nel medio e lungo periodo, molto preziosa. Non è difficile, difatti, dimostrare che le trattative con la controparte asiatica sopravvissero alla sua tragica e misteriosa scomparsa, nell’ottobre del 1962, arrivando anche alla costruzione di importanti impianti petrolchimici, sul finire del 1963, e spianando, definitivamente, la strada al dialogo ufficiale tra i due Paesi.

Le premesse ormai, del resto, c’erano tutte e dopo anni di accordi e trattative, nell’ottobre del 1964, si arrivò, finalmente, alla sigla di un primo accordo commerciale e all’inaugurazione di uffici di rappresentanza nelle rispettive capitali, nel 1965. Tali eventi permisero, poi, l’avvio del definitivo riconoscimento diplomatico, avvenuto nel novembre del 1970, e l’apertura della prima ambasciata italiana in una Pechino ancora scossa dai postumi della Rivoluzione Culturale, la violenta ed enorme mobilitazione di massa voluta da Mao, nel 1966.

L’ufficializzazione dei rapporti politici, ovviamente, non poté che rappresentare un punto di svolta anche per le stesse relazioni economiche; numerose delegazioni commerciali, infatti, arrivarono presto in Cina, tra le prime quella guidata dal Ministro Zagari nel 1971 e quella della Confidustria con a capo Gianni Agnelli nel 1975. A prescindere dagli esiti immediati più o meno entusiasmanti, le suddette missioni posero, comunque, le basi per la completa ricostruzione dei contatti tra i due Stati e per i fiorenti scambi attuali.

Questo excursus storico permette, dunque, di rispondere alle sempre più numerose curiosità sull’origine delle relazioni commerciali sino-italiane, evidenziando come esse abbiano costituito la vera spinta per il tanto sospirato riavvicinamento diplomatico e testimoniando, in ultimo, che anche in anni apparentemente “vuoti” o difficili, non è mai mancato l’interesse del nostro Paese per il lontano mercato asiatico, continuamente soggetto a mille oscillazioni, ma ancora tanto promettente.

*Paola Savona (p.savona92[@]gmail.com) è nata a Erice il 10 giugno 1992. Ha frequentato un breve corso di lingua cinese alla Nanjing Normal University. Si è laureata nel marzo del 2015 in Mediazione linguistica e culturale presso l’Università per Stranieri di Siena. Attualmente, frequenta il corso di laurea magistrale in Scienze linguistiche e comunicazione interculturale del medesimo ateneo.

**Questa tesi è stata discussa presso l’Università per Stranieri di Siena. Relatore: prof. Mauro Moretti; correlatore: prof. Mauro Crocenzi.