Niente di nuovo sul fronte occidentale, cioè a Washington, dove Xi Jinping e Barack Obama sono rimasti distanti su tutto tranne che sull’ambiente. L’impressione è che i due contendenti siano più lontani di prima, ma per dare l’impressione che non sia così, accelerano sul clima. È questa, forse, la migliore notizia per il pianeta. Dopo l’anticipazione ambientale sul sistema di crediti carbonio che la Cina sarebbe pronta a lanciare, Xi Jinping e Barack Obama non hanno annunciato grandi passi avanti nella conferenza stampa congiunta che venerdì scorso ha concluso l’attesissimo summit di Washington. Certo, entrambi hanno giurato che coopereranno contro il cyberspionaggio commerciale e hanno addirittura istituito una hotline per confrontarsi puntualmente in caso di clamorosi illeciti. Ma si sono guardati bene dall’estendere alle rispettive intelligence il divieto alle spiate, mentre non si sa bene quanto siano effettivamente in grado di contenere eventuali hackers “commerciali”. Obama ha pure fatto la voce grossa, parlando di possibili sanzioni in caso di violazioni cinesi, ma l’impressione è quella dell’anatra zoppa che si agita a beneficio dei falchi del congresso, che pretendono il pugno di ferro contro Pechino. Soprattutto, dopo che Xi Jinping aveva già incontrato il gotha dell’internet technology statunitense nel quartier generale di Microsoft.
Niente di fatto sulla questione del Mar Cinese meridionale, dove Obama ha rivendicato il diritto statunitense di pattugliare quelle acque a tutela dei Paesi che vi si affacciano e Xi ha ribadito il diritto della Cina di affermare i propri interessi, per lui legittimi. E niente di fatto soprattutto sul trattato bilaterale di investimento che si trascina ormai da sette anni. Da mesi si attendevano annunci, per ora nulla, il che la dice lunga sui problemi che Usa e Cina hanno ad aprire le rispettive economie alla controparte.
Un interessante sviluppo c’è stato invece sempre in materia ambientale, dato che entrambi i Paesi hanno messo al bando il commercio di avorio. Va ricordato che Hong Kong è il maggiore centro internazionale di smistamento della materia prima, che finisce soprattutto in Cina.
Insomma, se vogliamo sintetizzare: dati gli scarsi passi avanti, i due contendenti sembrano più lontani di prima; ma, per dare l’impressione che non sia così, accelerano sul clima. E questa forse è la migliore notizia per il pianeta.
Prima del summit, fonti Usa avevano infatti comunicato che la Cina si impegnerà a lanciare un sistema di “crediti carbonio” – cap-and-trade – per controllare le proprie emissioni di CO2. Già avviato sperimentalmente in diverse regioni cinesi, il sistema utilizza leggi di mercato per combattere l’emergenza ambientale. In pratica, stabilite delle quote di emissioni, le zone che ne producono meno possono vendere i propri “diritti a inquinare” a chi invece sfora i limiti. Se ci sarà un seguito alla promessa, la Cina diventerà così il più grande mercato di crediti carbonio al mondo, spodestando l’Unione Europea. Pechino dovrebbe anche impegnarsi in un sostanziale impegno finanziario per sostenere le economie più povere nella lotta al cambiamento climatico.
Che l’anticipazione sia venuta dagli statunitensi e non dai diretti interessati cinesi si spiega con il fatto che Obama aveva urgenza di spuntare le armi a quei repubblicani che criticano ogni scelta ambientale dell’amministrazione dicendo che “altri” – cioè la Cina – non fanno nulla per la salvare il pianeta.
Comunque sia, l’annuncio è stato il miglior viatico per la conferenza sul clima di Parigi di dicembre e le due superpotenze possono sbandierarlo come biglietto da visita. Adesso, Cina e Usa – che mai hanno ratificato il protocollo di Kyoto – cercheranno di coinvolgere altri Paesi in un progetto di controllo delle emissioni di lungo periodo e, soprattutto, di proprio gusto.
In Cina, sono già sette i programmi regionali di scambio delle emissioni, ma i prezzi variano dall’una all’altra zona e non è ben chiaro se stiano funzionando e quanto. Il nuovo sistema unificato dovrebbe coinvolgere i settori energetico, siderurgico, chimico, dei materiali da costruzione – leggi “cemento” – della carta e dei metalli non ferrosi; praticamente le principali industrie inquinanti della Cina.
Al vertice Apec del novembre 2014, la Cina si era impegnata a raggiungere il picco delle proprie emissioni di CO2 per il 2030. Entro quella data, aveva anche promesso di aumentare fino al 20 per cento la quota di combustibili non fossili nel proprio mix energetico.
Successivamente, un think tank legato al governo di Pechino, l’Istituto di Ricerca Energetica (Ire), aveva calcolato che per adempiere all’impegno la Cina avrebbe dovuto raggiungere il picco del consumo di carbone entro il 2020 ed effettivamente molte fabbriche e centrali energetiche non efficienti sono state chiuse.
Un rapporto della US Energy Information Administration (Eia) appena pubblicato, rivela che in Cina, tra il 2000 e il 2013. il consumo e la produzione di carbone sarebbero cresciuti rispettivamente del 14 e del 7 per cento. Nel 2014, il consumo sarebbe invece rimasto più o meno inalterato, mentre la produzione sarebbe addirittura scesa del 2,6 per cento.
Segno di un rallentamento dell’economia, certo, ma anche di un cambio di paradigma.
Secondo un sondaggio del Pew Research Center – noto think tank statunitense – l’inquinamento è al secondo posto, dopo la corruzione, tra le preoccupazioni che più affliggono i cinesi. Precede diseguaglianza, crimine, carovita, sicurezza alimentare, che per altro può essere vista come una variabile dell’inquinamento stesso. Questa lista ci restituisce con chiarezza le priorità della leadership cinese. Se la campagna anticorruzione continua martellante e indefessa, Xi Jinping ha inserito nell’agenda del suo tour americano il problema numero due, quello su cui è per altro più facile fare annunci congiunti con gli Usa. O, addirittura, lasciando a Obama & Co l’onore dell’anticipazione.
Che il clima sia un terreno comune su cui Cina e Usa possono ritrovarsi, mentre restano per esempio distanti su temi come geopolitica e diritti civili, lo avevano rivelato altri segnali. Durante un vertice tenutosi a Los Angeles proprio alla vigilia del viaggio di Xi, Pechino e altre dieci città cinesi avevano comunicato di voler raggiungere il picco delle proprie emissioni di gas serra già nel 2020 – un decennio prima del target precedente – mentre Seattle, una dozzina di altre aree metropolitane Usa e l’intero Stato della California si erano impegnate a diventare a impatto zero entro il 2050, con tagli dell’80 per cento sulle proprie emissioni.
La Cina deve continuare a crescere in un contesto sia interno sia internazionale stabile e pacifico per dare prosperità a un miliardo e trecento milioni di persone. È il “sogno cinese” – slogan coniato da Xi Jinping – di una xiaokang shehui: “società del benessere moderato”, altro slogan del presidente. Si tratta sempre più di un benessere non solo economico e anche lo scambio dei crediti carbonio rientra in questo disegno.
[L’articolo accorpa un pezzo scritto per Il Fatto Quotidiano e alcuni interventi a Radio Popolare]