Cina. Nel bacino del Tarim, sotto il deserto del Taklamakan, ci sarebbe un mare che assorbe emissioni di CO2. La scoperta di un’équipe internazionale di scienziati potrebbe ridefinire il concetto di "deserto" e offrirebbe nuovi spunti per discutere il quesito: l’attività umana fa solo danni o può anche risolvere i problemi? “Il mistero dell’anidride carbonica scomparsa” non è il titolo di un giallo ispirato alla scienza, ma un vero grattacapo per gli scienziati di tutto il mondo che per anni non hanno trovato più circa un miliardo di tonnellate Co2 generate dai combustibili fossili. Cercando proprio quell’anidride carbonica, un team internazionale di scienziati a guida cinese ha scoperto qualche settimana fa un vero e proprio “oceano salato” sotto il bacino del Tarim, una valle grande quanto l’Uruguay, che si trova nello Xinjiang e al cui interno c’è il deserto del Taklamakan.
Procediamo con ordine: dei circa 11 miliardi di tonnellate di carbonio prodotte ogni anno – si stima – circa 5 miliardi rimangono nell’atmosfera; 3 miliardi sono immagazzinati negli oceani; una parte è risucchiata dalle foreste; ma c’è circa un miliardo di tonnellate che avanza e fa sballare i conti.
Si è quindi sospettato che anche i deserti potessero fungere da grandi “pozzi” di Co2, ma non si comprendeva come aree scarse di vegetazione potessero immagazzinarla.
Ora, sulla rivista della American Geophysical Union, il team di scienziati ha pubblicato uno studio secondo cui enormi falde acquifere che si trovano proprio sotto i deserti sarebbero in grado di “risucchiare”, ogni anno, 14 volte più carbonio di quanto si pensasse. “È un viaggio solo andata”, spiega Yan Li, un ricercatore dell’Accademia Cinese delle Scienze di Urumqi.
Lo studio aggiunge che il bacino del Tarim potrebbe contenere una quantità di acqua salata di 10 volte superiore a quella di tutti i Grandi Laghi del Nord America. Se fosse vero, il concetto stesso di “deserto” sarebbe da rivedere, dicono gli scienziati cinesi.
La scoperta – si diceva – è avvenuta quasi casualmente. I ricercatori stavano calcolando le emissioni carboniche e hanno notato che nel bacino del Tarim si verifica quell’accentuato fenomeno di assorbimento che è tipico dei mari e delle foreste. Si sono resi così conto di un processo complesso, per cui la quantità di anidride carbonica disciolta nell’acqua raddoppia in presenza di campi irrigati. Viene assorbita dalle colture desertiche attraverso le radici delle piante; i microbi presenti nel sottosuolo la fissano quindi al terreno attraverso successivi processi biochimici.
Anche se questo processo di “seppellimento” del carbonio avviene naturalmente, gli scienziati hanno scoperto che la quantità di Co2 che scompare sotto il deserto del Tarim ogni anno è aumentato negli ultimi 2mila anni, cioè da quando l’apertura della Via della Seta determinò lo sviluppo dell’agricoltura in quell’area.
Gli agricoltori che vivono nelle oasi ai margini del deserto del Taklamakan sopravvivono grazie al drenaggio di acqua che proviene dalle montagne circostanti. Il contributo umano è dato dai karez, canali scavati sotto terra fin dalle catene montuose più distanti, per centinaia di chilometri. L’acqua scorre e converge verso il centro del Tarim, dove ha creato l’oceano salato. Insomma, Co2 in salamoia.
Così, il deserto del Taklamakan si è trasformato in un enorme “pozzo” che, in un processo durato 10mila anni, avrebbe assorbito circa 22 miliardi di tonnellate di carbonio disciolti in una enorme falda acquifera. Lo studio, si dice ora, porterebbe a rivedere il modello di “pozzo di carbonio”: non sono solo le foreste a crearli, ma anche le attività agricole.
C’è il rischio che si giustifichino eccessivamente le attività umane già in buona parte responsabili del riscaldamento climatico? L’agricoltura in zone aride?
R.A. Houghton, uno scienziato co-autore dello studio, mette in guardia: “Molti luoghi del mondo attingono l’acqua da falde acquifere senza sostituirla. Quindi, una volta che si è esaurita, non c’è più modo di irrigare il terreno” e riattivare quindi il processo. Insomma, bisogna chiudere il rubinetto e lasciare che l’acqua trovi le sue vie sotterranee. Utilizzare metodi naturali o quasi. Come i karez, meraviglia dell’antica ingegneria lungo la Via della Seta.