Internazionalizzare lo Yuan, con tutti i rischi che ciò comporta in termini di volatilità e di sfida al dollaro? Oppure mantenerlo valuta solo cinese, rimandando all’infinito l’approdo nel gotha delle superpotenze economiche? Per Yukon Huang, la Cina ha una terza via più graduale e, per ora, percorribile. La riforma del meccanismo di fissaggio del Renminbi/Yuan decisa dalle autorità cinesi l’11 agosto ha suscitato fondamentalmente due interpretazioni.
Primo: è svalutazione competitiva decisa a fronte delle difficoltà dell’economia e della borsa cinesi.
Secondo: va inserita nelle manovre di avvicinamento all’internazionalizzazione dello Yuan, di cui fa parte anche la sua accettazione da parte del FMI tra le valute che compongono il paniere dei Diritti Speciali di Prelievo.
Abbiamo chiesto a Yukon Huang – senior associate al Carnegie Endowment ed ex direttore della Banca Mondiale per la Cina – di dirci come la vede. Huang ha spesso opinioni originali e in controtendenza rispetto al pensiero economico mainstream, ma è un signore molto impegnato, così ci ha rimandato a un suo articolo recentemente pubblicato sul Financial Times, in cui, in sintesi, sostiene quanto segue.
“La Cina vuole che lo Yuan entri nel paniere dei DSP del FMI e che diventi una delle principali valute globali di scambio e di riserva. A tale scopo vuole uno Yuan stabile e forte. Vuole anche che il valore dello Yuan sia sempre più determinato dalle forze di mercato. Ma la leadership cinese non può ottenere entrambe le cose se non cambia il proprio approccio nella gestione dei tassi di cambio. Il risultato [delle politiche di Pechino] è stato finora un caos dovuto a una svalutazione inaspettata, che ha provocato la percezione diffusa che Pechino abbia perso il controllo delle decisioni economiche”.
Sostanzialmente, l’internazionalizzazione dello Yuan richiede una liberalizzazione dei tassi di cambio e un’apertura del mercato dei capitali di cui i benefici si vedono sul lungo periodo e che si scontrano invece con la (apparente) necessità delle autorità economiche cinesi di prendere decisioni che agiscano sul breve, per correggere per esempio la volatilità dei mercati. Come si esce da questa contraddizione?
Huang sposta l’asse del discorso e si chiede: l’internazionalizzazione dello Yuan è oggi tecnicamente possibile, ma è necessaria?
Escludendo le ragioni di prestigio – fare della propria moneta un’alternativa al dollaro per sancire il nuovo status di superpotenza – a cui la leadership cinese è tradizionalmente poco interessata, i più plausibili motivi per internazionalizzare il Renminbi sono:
1) ragioni di sicurezza. Con il dominio dell’architettura finanziaria internazionale, gli Usa hanno per le mani un’arma potenzialmente letale in caso di conflitto, come è stato ben esemplificato dalle sanzioni economiche contro l’Iran.
2) La “rendita” economica di cui beneficiano gli Stati Uniti nell’avere il dollaro come valuta globale, perché questo consente di gestire enormi deficit prendendo a prestito senza limiti dall’estero (e la Cina ha più volte criticato gli Stati Uniti in passato questo “privilegio esorbitante”).
3) Una ragione di politica interna. L’internazionalizzazione dello Yuan sarebbe in questo caso una “riforma per cavallo di Troia”. La banca centrale cinese vedrebbe l’internazionalizzazione non come un obiettivo finale, ma come un pretesto per spingere ulteriori riforme di mercato.
Tuttavia, il motivo più pregnante sarebbe – secondo Huang – quello legato agli equilibri regionali, con la Via della Seta sullo sfondo:
4) “L’iniziativa Via della Seta del presidente Xi promuove una migliore connettività fisica e finanziaria con il Sud-est asiatico, l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Europa. Quattro secoli fa, al culmine della portata globale del suo commercio, le monete di rame della Cina erano utilizzate come strumento di scambio in tutta l’Asia e oltre. La visione che si ha oggi per lo Yuan è di scala molto più grande”.
Huang osserva quindi che la Cina è oggi soprattutto un’economia di trasformazione (per circa la metà del proprio commercio con l’estero): parti e componenti arrivano da altri Paesi dell’Estremo Oriente e la Cina li assembla e ri-esporta. Ebbene, questo commercio avviene già in buona parte in Yuan, il che permette a Pechino di gestire il proprio deficit. D’altra parte, l’espansione verso l’Asia Centrale della Via della Seta – cioè investimenti cinesi in Yuan nei vari “stan” e oltre – rende il Renminbi la naturale “moneta di riferimento per la rete di produzione e di condivisione. L’Asia in generale trarrebbe vantaggio da un maggiore uso dello Yuan per migliorare l’efficienza del commercio e ridurre i rischi dei cambi nel commercio intra-regionale”. I segnali ci sono già, visto che molti Paesi asiatici sembrano ormai tenere d’occhio le variazioni dello Yuan più che quelle del dollaro e che la Cina, almeno dalla crisi globale del 2008-2009, cerca di siglare nuovi accordi di scambio bilaterale senza fare riferimento al dollaro e utilizzando le monete nazionali.
Insomma, secondo Huang, per ottenere il duplice scopo di internazionalizzare la propria moneta e al contempo non attirare instabilità economica, la Cina potrebbe scegliere un passaggio intermedio, facendo dello Yuan una “valuta regionale”. Altrimenti detto, senza rischiare nel mare magnum della volatilità internazionale e sganciandosi sempre più dal dollaro, la moneta cinese potrebbe sempre più legarsi alle altre valute regionali e costruire un nuovo sistema di Stati tributari, riaggiornato al ventunesimo secolo. Per sfidare il biglietto verde, c’è sempre tempo.