"Paradossalmente, quando c’era più corruzione c’era anche più libertà". Con l’avvento di Xi Jinping, la "zona grigia" in cui è possibile muoversi senza essere censurati è cambiata e oggi non si sa dove stia la linea rossa da non oltrepassare. Artisti e reporter raccontano la stretta in corso sulla produzione di pensiero. Questa storia comincia da un cadavere. Il boss è morto di cancro allo stomaco, i familiari gli lavano la fronte, lo vestono. La telecamera l’ha seguito nell’ultimo anno di vita, tra carcere e ospedale: scheletrico, pallido, circondato dalle cure della famiglia allargata, un clan perdente della mafia carbonifera dell’Hunan: quella delle miniere illegali, che talvolta collassano seppellendo decine di minatori. Vomita sangue, il boss, e racconta delle torture subite da parte della polizia locale, il cui capo è in combutta con la famiglia rivale. Anche lui, un tempo, si era imposto così su qualcun altro. Nessuno si salva, in questa Cina profonda.
Il documentario non andrà mai nei cinema. Qiao Xingyue, il regista 33enne che l’ha girato, ha incassato il “no” di tutte le sale di Pechino. Wo shi hei shehui (“Io sono la mafia”) comparirà forse solo online, all’estero.
“Quasi quasi è meglio così – dice Qiao – altrimenti sarei finito nel mirino sia dei mafiosi sia del capo della polizia, che sta ancora al suo posto. Il limite che mi sono imposto è l’incolumità personale”, ride. “Finché la polizia di Pechino ti invita a prendere il tè, non c’è problema. Il problema nasce quando pesti i piedi a qualcuno di potente”.
Nei primi anni Duemila, “Io sono la mafia” sarebbe forse circolato su YouKu, il YouTube cinese. Ora non se ne parla nemmeno. “Se provi a caricarlo, a un certo punto tutto si blocca e compare un messaggio che ti comunica il divieto per contenuti sensibili o pornografici”. Magari Qiao potrebbe quindi distribuirlo agli amici con Baidu Yun (Baidu cloud), l’ambiente di stoccaggio dei file “a nuvola”, messo a disposizione dall’equivalente cinese di Google. “Ma ultimamente, quando provi a caricarlo, succede come per YouKu”: upload fallito.
Con l’avvento della leadership di Xi Jinping, nel 2012, la censura cinese si è fatta più dura?
“Sì – è la risposta di Qiao – perché dopo il lancio della campagna anticorruzione, tutti i funzionari si sono fatti improvvisamente zelanti: vogliono dimostrare di essere inflessibili per non finire nei guai”. Paradossalmente, quando c’era più corruzione c’era anche più libertà.
La transizione dall’accoppiata Hu Jintao-Wen Jiabao al centralizzatore Xi, è stata spiegata da Björn Conrad, analista di un think tank tedesco, come sostituzione dell’approccio “a valvola di sicurezza” con quello “alla lettera”. Prima, ogni regola era aggirabile. Le autorità sapevano e chiudevano un occhio. Il sistema funzionava come la valvola di una pentola a pressione, che fa uscire il vapore affinché non esploda tutto. Con Xi Jinping torna invece in auge l’uomo forte, carismatico, che impone una stretta osservanza delle regole. Senza però che tali regole siano chiare. E quindi, per dormire sonno tranquilli, subentra l’autocensura preventiva.
“Quando controllano il mio lavoro, i produttori tagliano delle parti dicendo che non supererebbero mai la censura”, spiega Qiao. “Io chiedo loro: ma ne sei sicuro? No – rispondono – lo immagino”.
“L’autocensura preventiva è il primo livello”, dice Maria, una straniera che lavora nell’edizione internazionale di un media di Stato cinese (ha chiesto di non rivelare né il suo vero nome né la testata). “Così, il mio capo ha posto il veto su un servizio che volevo fare sulla legalizzazione della cannabis negli Usa. Secondo il suo ragionamento, se qualcuno si fosse espresso positivamente sul tema, il governo cinese avrebbe potuto sentirsi in imbarazzo”.
Fa parte di questa prima fase censoria la ricerca di interlocutori “affidabili” – possono essere gli ospiti di una trasmissione televisiva piuttosto che gli intervistati di un articolo – gente cioè che non faccia venire i sudori freddi a qualche direttore responsabile. Che dica ciò che è lecito dire.
Poi c’è il secondo livello, cioè i tagli editoriali “che nella monotona ripetitività delle procedure burocratiche danno spesso luogo a risultati esilaranti”, spiega Maria. “Per esempio quando un esperto dice: ‘Da un lato le relazioni Sino-Indiane fanno progressi, ma dall’altro restano molti problemi di confine’. Ecco, ammettiamo che sia considerata sensibile la seconda parte della frase, a quel punto viene tagliata di netto e noi restiamo con quel ‘da un lato’ appeso per aria”.
Il terzo livello è la versione finale, controllata da un dirigente di rango inferiore. “Infine, esiste una censura post-pubblicazione (o trasmissione), a opera di personaggi importanti che vengono a sapere di qualche contenuto non ortodosso che è filtrato. A quel punto vieni richiamato e sgridato dal tuo capo reparto”.
Cosa si censura? “Sulle ‘tre T’ non si discute neppure”, racconta Maria. Taiwan, Tibet, Tian’anmen sono gli argomenti tabù, ma così tabù, che a volte capitano situazioni assurde.
“Dovevo fare un pezzo basato su un rapporto del World Economic Forum, parlava di business in Cina e altri Paesi. Roba tranquilla, giusto? Invece no, perché si scopre che in questa relazione sono stati esaminati ’70 Paesi’, inaccettabile. In pratica, qualcuno è andato a scaricarsi il documento e ha scoperto che anche Taiwan era stata inserita tra i ‘Paesi’. Il bello è che io non ho mai menzionato Taiwan nel mio pezzo”.
Anche i leader non possono mai essere attaccati direttamente: “Una volta ho dovuto cancellare la frase di un intervistato secondo cui Hu Jintao, l’ex presidente, parla in maniera noiosa’”. La censura si estende anche ai capi di Stato stranieri e non si parla solo di Putin o Kim Jong-un, bensì di tutti: “Dato che i rapporti tra Germania e Cina vanno bene, non ho potuto menzionare i manifestanti greci che sventolano svastiche alla Merkel. La mia ipotesi è che, nella mentalità della leadership cinese, i media siano solo un braccio della politica. E quindi, le critiche rivolte a un leader straniero da una testata sarebbero analoghe a quelle ufficiali, di un ambasciatore”.
Per parlare di problemi politici bisogna usare frasi passive, indicare il guaio in astratto, senza collegarlo a responsabilità dei vertici: “Non puoi scrivere ‘il Partito è corrotto’, ma è invece perfettamente passabile, anzi incoraggiato, ‘combattere la corruzione è uno degli obiettivi principali della Cina contemporanea’”.
“Che cosa è successo negli ultimi anni? Non si capisce. E non si capisce dove stia la linea rossa da non superare. Ci è ignoto il processo decisionale all’interno della SARFT (State Administration of Press, Publication, Radio, Film and Television – guojia guangbo dianying dianshi zongju), l’unico messaggio che ci arriva è di mostrare il Paese in chiave positiva”.
Vivian Qu è una delle poche produttrici di film indipendenti in Cina. È stata membro della giuria a Venezia 2014 e ha prodotto Black Coal, Thin Ice (in cinese, Bairi yanhuo, “Fuochi d’artificio di giorno”), il film che ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino, sempre nel 2014.
“Nel 2006, quando ho iniziato, la censura non era un problema. Il problema erano i soldi che non c’erano, quindi li prendevamo dall’estero, soprattutto dalla Francia. I film che producevo erano finanziati soprattutto dai miei amici ed ero molto ottimista. Ma nel corso degli anni, mano a mano che il mercato si è ingrandito, abbiamo cominciato a toccare temi sensibili. In contemporanea è esplosa la crisi economia in Europa e i canali di finanziamento dall’estero si sono prosciugati. A quel punto, il cineasti indipendenti hanno dovuto cominciare una dolorosa marcia attraverso la censura, per ottenere i finanziamenti di Stato”.
La linea rossa è in continuo movimento, secondo Qu. “Tutto è diventato più difficile, ma circolano anche più soldi: Dipende da quanto intendi comprometterti”.
La censura più sottile è proprio quella economica.
Il regista Wang Xiaoshuai ha appena lanciato il suo “Red Amnesia” nelle sale cinesi (titolo cinese, Chuang ru zhe, cioè “Gli intrusi”). Il film, che ha concorso per il Leone d’Oro al festival di Venezia 2014, è un thriller psicologico che racconta il malessere di una donna protagonista della Rivoluzione Culturale. Di un periodo, cioè, ancora tabù per la coscienza collettiva dei cinesi. La pellicola ha superato tutti i controlli della censura, ma a un incontro post proiezione organizzato dal Club dei corrispondenti stranieri a Pechino, il regista confessa il suo sconforto: “Ho appena passato i tre giorni più brutti della mia vita. Ho visto i risultati al botteghino e sono un disastro”. Secondo lui, la colpa è di una generazione, i giovani cinesi, che pensano solo alla carriera, rimuovono la storia e vivono in un eterno presente. Ma c’è dell’altro: può capitare che un film sia mandato nelle sale affinché nessuno vada a vederlo. “Per esempio, se viene programmato alle nove di mattina”, spiega Qiao Xingyue. “Così, poi i giornali scrivono che non interessa al pubblico. Il che, a sua volta, scoraggia eventuali spettatori”.
Fino a qualche anno fa, un film mingang (sensibile) poteva comunque girare in un circuito di bar e club privati. “Adesso no, anche lì è diventato sempre più difficile”, racconta Qiao. “I guobao, cioè gli agenti della sicurezza, fanno pressioni sui proprietari e quelli chiudono le porte. Sono anche capaci di bloccare le strade d’accesso al luogo di proiezione, oppure all’improvviso sparisce l’elettricità”.
Così è andata anche per il festival del cinema indipendente di Pechino, un appuntamento che fino a pochi anni fa attirava cultori non solo dalla Cina. Era organizzato dalla Fondazione Li Xianting di Songzhuang, un sobborgo di Pechino, che possiede un archivio di produzioni indipendenti cinesi da centinaia di titoli. Per tre anni di fila, il festival è stato bloccato con diversi espedienti. Prima, non si sono più trovate sale per proiettare i film; poi, ad agosto 2014, quando la fondazione ha deciso di farlo a porte chiuse all’interno della propria sede, sono arrivate le guardie e hanno sequestrato tutto il materiale, computer compresi.
“Se sei di famiglia potente, usano altri mezzi”, spiega Qiao. “Una mia amica regista che proviene dalla nobiltà rossa [gli alti funzionari di Stato, ndr] si è vista arrivare a casa il capo della polizia locale con il cappello in mano. Lui l’ha implorata: gei wo mianzi”, frase tipicamente cinese che significa “dammi la faccia”, cioè non umiliarmi, non mettermi nei guai e fidati di me. Implicava la richiesta di non distribuire un film dai contenuti sensibili che lei aveva appena girato. “La mia amica era così furente che prima si è fatta offrire una cena sontuosa a spese della polizia; poi ha preso armi e bagagli e si è trasferita nello Yunnan, obbligando gli agenti a caricare tutte le sue cose, attrezzatura cinematografica compresa, su un furgone d’ordinanza”. Ditta di traslochi. Per evitare guai, si fa proprio di tutto nella nuova Cina di Xi Jinping.
[Scritto per "Il Venerdì" di Repubblica]